La dignità del fine vita
Di recente, in Francia, si è tristemente conclusa la vicenda di Vincent Lambert, 42 anni, con la sua morte anticipata, causata intenzionalmente mediante interruzione dell’alimentazione e idratazione artificiali. La condizione clinica di Vincent, infatti, pur comportando una grave ed inguaribile disabilità, non era di certo una situazione di “terminalità” e Vincent avrebbe potuto continuare a vivere a lungo, con l’unico supporto della nutrizione e idratazione artificiali (NIA), oltre alla normale assistenza di cui possono necessitare i soggetti tetraplegici.
Invece, dopo una lunga e lacerante battaglia legale, condotta dalla moglie – suo tutore legale –, contro la disperata ed inefficace resistenza dei genitori di Vincent, i giudici francesi – col parere favorevole dei medici curanti – hanno stabilito, in base alla normativa francese in materia, che si avviasse l’interruzione della somministrazione della NIA, con l’inevitabile e diretta conseguenza della sua morte per fame e sete (il che ha richiesto una sedazione profonda, per scongiurare la terribile sofferenza connessa a questa modalità). Va da sé che tutto ciò è avvenuto senza che Vincent abbia potuto esprimere in merito la propria volontà attuale, né esistesse una sua volontà pregressa scritta. È stato invece sufficiente che la moglie testimoniasse davanti ai giudici che, in base ai suoi “ricordi”, Vincent avrebbe certamente voluto così.
Ma come giustificare, da un punto di vista morale e umano, che una persona gravemente disabile, che non manifesta alcuna volontà di morire, sia – a norma di legge – intenzionalmente privata di ciò che la nutre e la idrata, mantenendola in vita? Si è trattato forse della rinuncia ad una forma di “accanimento terapeutico”, che ha avuto come conseguenza non desiderata la morte di Vincent? Proprio no, per il semplice fatto che, nel nutrire ed idratare una persona non autosufficiente, non v’è nulla di “terapeutico”, né Vincent era sottoposto ad altre terapie che potessero risultare per lui gravose, né si trovava in una fase terminale che lasciasse presagire una morte imminente.
Dunque, anche se è triste ammetterlo, nei fatti (al di là delle parole usate dai “protagonisti” della vicenda) siamo di fronte ad una vera e propria forma di eutanasia, perpetrata su un soggetto gravemente disabile, senza il suo consenso, e realizzata con una modalità “omissiva” (interruzione di ciò che serve per mantenere in vita). Evidentemente, come dimostra questo caso, la vigente legge francese sul fine vita consente queste forme di eutanasia di fatto, facendole passare sotto forma di “rinuncia ai trattamenti sanitari”.
E in Italia potrebbero verificarsi casi analoghi? Le indicazioni della legge vigente (L. 219/2017) in materia, in alcuni passaggi si prestano a possibili interpretazioni che vanno in questa direzione, soprattutto nei riguardi di soggetti non in grado di intendere e volere. I problemi maggiori potrebbero verificarsi qualora il rifiuto di trattamenti sanitari, anche se necessari al mantenimento in vita (inclusa la NIA), dovesse essere deciso dal tutore legale in accordo con i medici; in tal caso, infatti, non sarebbe necessario neanche il ricorso al giudice.
Ma c’è un’altra “spada di Damocle” che pende sulle nostre teste. Si tratta delle decisioni che assumerà la Corte Costituzionale il 24 settembre prossimo circa il cosiddetto “caso Cappato”, ovvero la pronuncia del giudizio di costituzionalità sull’art. 580 del codice penale, che attualmente sanziona il reato di aiuto al suicidio. È molto difficile, infatti, dati i tempi ristrettissimi, che il Parlamento riesca a legiferare in materia, colmando le lacune rilevate, come richiesto dalla stessa Corte nell’ordinanza n. 207 del 24 ottobre 2018.
Qualunque siano gli esiti normativi, vale una considerazione più radicale e urgente. Di fronte all’esperienza della malattia e della sofferenza ad essa connessa, che “a turno” irrompono nella vita dei suoi membri, la comunità sociale deve decidere che atteggiamento assumere e su quali riferimenti comuni costruire la convivenza.
Riconoscere il valore inalienabile della vita umana, di ciascuna vita umana, senza differenze o discriminazioni, è sicuro fondamento di solidarietà e di vera pace. Al contrario, considerare alcune vite come “diminuite” o “non degne di cura”, a causa della malattia e della sofferenza, costituirebbe una ferita profonda alla stessa dignità delle persone, aprendo inquietanti scenari di disgregazione sociale contrassegnati da individualismo ed egoismo. Non dovremmo mai dimenticare che sono proprio i soggetti più “fragili” ad avere bisogno di maggiore aiuto e supporto: è questa la regola d’oro per costruire e promuovere una comunità autenticamente umana.