La difficile strada di Confindustria
Una crisi economica senza precedenti e l’uscita della Fiat. Le scelte dell’organizzazione guidata da Emma Marcegaglia.
Confindustria è il grande sindacato degli imprenditori italiani, fondato nel 1910, che conta quasi 149 mila imprese, associate in un sistema complesso di unioni regionali e federazioni di settore. Si sostiene con il contributo dei soci, i datori di lavoro, in base al numero dei dipendenti in forza. Al momento, il conteggio si basa su cinque milioni e mezzo di lavoratori.
Saranno un po’ di meno dal gennaio 2012 con l’uscita della Fiat annunciata da Marchionne. Potrebbero andarsene altri imprenditori attratti dal decisionismo del manager italo-canadese, residente in Svizzera. Il peso della multinazionale controllata dagli eredi Agnelli, infatti, non si misura dal numero degli addetti in Italia, che sono tra l’altro in costante diminuzione, da Termini Imerese (auto), all’Irpinia (autobus), a Imola (macchine agricole). Ridotta la stessa roccaforte torinese di Mirafiori a partire dal 1980, anno della vittoria della linea aziendale sul sindacato operaio.
Solo il tre per cento delle imprese associate a Confindustria ha oltre 250 lavoratori in forza, il 14 per cento tra 50 e 250 e la gran parte, l’83 per cento, nella fascia fino a 50 dipendenti. Nel conteggio anche le aziende delle ex partecipazioni statali; privatizzate in parte, ma con quote decisive ancora in mano pubblica.
Una pluralità di posizioni presenti, dunque, all’interno dell’organizzazione, passata dalle aspettative fiduciose sulla situazione italiana nel 2008 al documento del 30 settembre 2011, Progetto delle imprese per l’Italia, che contiene una serie di pesanti misure da adottare immediatamente per «salvare il Paese», dato che «il tempo si è fatto brevissimo». Proposte firmate assieme alle corrispondenti sigle del mondo bancario e cooperativo. Così come l’accordo precedente del 28 giugno, concluso con il sindacato, inclusa la Cgil, e indigesto alla Fiat, palesa la ricerca di coesione di fronte ai mille e 900 miliardi di euro di debito pubblico, al rischio di default e al conseguente prevedibile conflitto sociale.
L’emergenza non può, tuttavia, nascondere, assieme ad alcuni casi virtuosi, una riflessione sulle occasioni perdute, negli anni precedenti, di investimento degli utili nei settori ricerca e sviluppo delle imprese piuttosto che nei dividendi degli azionisti o nei compensi degli amministratori. Temi che Confindustria, come testimoniano Il Sole 24 ore e Radio24, non ha timore di affrontare, al pari della lotta alla mafia condotta decisamente a partire dall’esempio dell’unione industriale palermitana.