La differenza sessuale
Provo allora, tenendo conto dell’evoluzione dei costumi e delle nuove domande, a rianalizzare se e perché la coppia eterosessuale, pur con tutti i suoi limiti, rimane “la coppia ottimale” per la famiglia e per la società. Se questa “alleanza uomo-donna (e bambino)”, riproposta recentemente da papa Francesco, abbia ancora una validità e un futuro. Per i cristiani la risposta è scontata; ma anche chi non lo è può, forse, trovare motivazioni condivisibili.
Si può, mi chiedo, di fronte alla crescente indifferenziazione e intercambiabilità di rappresentazioni e ruoli maschili e femminili, ripensare il senso libero e generativo della differenza sessuale? Di che differenza si tratta e perché ha uno statuto diverso da tutte le altre differenze antropologiche che ci attraversano (di età, status, provenienza, cultura, orientamento sessuale…)?
Prima di tutto sottolineo che la differenza sessuale è una differenza relazionale e irriducibile, alla cui origine sta il diverso modo di disporsi a entrare in rapporto, con sé e con l’altro, nella generazione e nella sessualità (dimensioni che comprendono la complessità di pensieri, fantasie, desideri, paure, al di là di ogni naturalità animale).
Ed è un diverso modo di stare al mondo nella quotidianità. Essa è la più universale e radicale delle differenze perché «passa fra “due” che non hanno identità senza questa differenza. Che a sua volta dall’identità umana prende realtà» (Luisa Muraro). Come dire che ciascuno/a ricama il filo della propria identità intrecciandolo con l’altro che io non potrò mai essere né possedere né conoscere dall’interno e in modo immediato. Identità e differenza stanno come i due capi di una corda: se ne si lascia cadere uno, cede anche l’altro.
Per indicare il valore della differenza sessuale, tra i tanti possibili argomenti scelgo di offrire solo qualche spunto sui vissuti di una donna, un uomo, un bambino o una bambina. Mi soffermo soprattutto sulla simbolica del corpo femminile perché di esso ho un’esperienza originaria, mentre non ho un accesso immediato all’esperienza di un uomo.
Il corpo-parola della donna
Come cominciare a dirne qualcosa? Il corpo della donna fa segno e memoria (anche all’uomo) della «capacità dell’altro» (Joseph Ratzinger), iscritta fin nella sua corporeità. Nell’amore, e più ancora nella gestazione, il suo corpo è il luogo allestito per l’altro. Esso infatti può diventare lo spazio dove il filo di tre esistenze e di tre desideri è tessuto nell’opera della madre: il desiderio che lei ha della creatura piccola, quello della creatura tenacemente attaccata al suo grembo e quello del padre che glielo affida perché lei rivesta di carne la parola d’amore pronunciata fra di loro (Françoise Dolto). In questa triangolazione, confluiscono anche le attese e le aspettative delle famiglie e delle stirpi di provenienza, così come quelle della cultura di riferimento. Questo addensamento (di pensieri, aspettative, paure) richiede un grande lavoro di filatura e taglio simbolico per districare gli intrecci del desiderio, senza farsi risucchiare nell’immagine materna quale potenza oscura, sensoriale e arcaica. La gestazione comporta perciò per la donna alcune scoperte fatte sulla propria pelle, corpo e mente (che vengono trasmesse a ogni figlia nella continuità della generazione). In nessun’altra esperienza il corpo è più implicato: come passività (attende, si affida alle risorse della giovane vita, non può contrastare gli eventi espulsivi) e come attività (lo nutre in se medesimo).
In nessuna attività più di questa, la donna deve affrontare la difficoltà di tracciare un confine fra sé e il bambino, fra potenza e impotenza, autonomia e dipendenza, donazione e mancanza; deve continuamente fare la fatica di pensarlo senza di lei, operando il passaggio tra la creatura immaginata o desiderata, quella che è tutta sua, e il figlio reale, che è altro da lei.
In nessun’altra esperienza, lei percepisce a un tempo la generosità e vulnerabilità dell’essere. Custodendo il figlio, la figlia, lei è più intima al mistero della vita e della morte. Ciò la protegge dalla volontà di potenza sulla vita; infatti, nell’esperienza in cui le vite si annodano per sempre, l’essere è avvertito nella sua tenera fragilità. Una donna impara, col tempo e con fatica, che non sempre si può evitare ciò che è andato male, spesso non può far altro che stare in presenza del dolore, più forte che mai se riguarda il figlio della propria carne. E ciò richiede uno sguardo speciale sulle cose e sulle persone (Luisa Muraro). Una donna impara a stare di fronte a ciò che prova, anche alle emozioni negative, senza rifuggirle come se non ci fossero; gradualmente si addestra a non temere il mondo emotivo, suo o del figlio, a riconoscere e dare un nome alle emozioni che prova e quindi a governarle; a contenere e mediare quelle del figlio affinché egli non si senta minacciato dal proprio mondo interno o da quello esterno.
Da Gender di Susy Zanardo. Contributi di: Paola Binetti, Livia Turco, Daniela Notarfonso (Città Nuova, 2016)