La differenza sessuale

La teoria del gender mette in discussione il senso e il valore della differenza sessuale. Cosa si intende per differenza sessuale? Cosa implica? Nel dossier Gender di Città Nuova, Susy Zanardo fa chiarezza sull’argomento.
Gender

Provo allora, tenendo conto dell’evoluzione dei costumi e delle nuove domande, a rianalizzare se e perché la coppia eterosessuale, pur con tutti i suoi limiti, rimane “la coppia ottimale” per la fa­miglia e per la società. Se questa “alleanza uomo-donna (e bambino)”, riproposta recentemente da papa Francesco, abbia ancora una validità e un futuro. Per i cristiani la risposta è scontata; ma anche chi non lo è può, forse, trovare motivazioni condivisibili.

 

Si può, mi chiedo, di fronte alla crescente in­differenziazione e intercambiabilità di rappresen­tazioni e ruoli maschili e femminili, ripensare il senso libero e generativo della differenza sessuale? Di che differenza si tratta e perché ha uno statuto diverso da tutte le altre differenze antropologiche che ci attraversano (di età, status, provenienza, cultura, orientamento sessuale…)?

 

Prima di tutto sottolineo che la differenza ses­suale è una differenza relazionale e irriducibile, alla cui origine sta il diverso modo di disporsi a entrare in rapporto, con sé e con l’altro, nella generazione e nella sessualità (dimensioni che comprendono la complessità di pensieri, fantasie, desideri, paure, al di là di ogni naturalità animale).

 

Ed è un diverso modo di stare al mondo nella quotidianità. Essa è la più universale e radicale delle differenze per­ché «passa fra “due” che non hanno identità sen­za questa differenza. Che a sua volta dall’identità umana prende realtà» (Luisa Muraro). Come dire che ciascuno/a ricama il filo della propria identi­tà intrecciandolo con l’altro che io non potrò mai essere né possedere né conoscere dall’interno e in modo immediato. Identità e differenza stanno come i due capi di una corda: se ne si lascia cadere uno, cede anche l’altro.

 

Per indicare il valore della differenza sessua­le, tra i tanti possibili argomenti scelgo di offrire solo qualche spunto sui vissuti di una donna, un uomo, un bambino o una bambina. Mi soffermo soprattutto sulla simbolica del corpo femminile perché di esso ho un’esperienza originaria, men­tre non ho un accesso immediato all’esperienza di un uomo.

 

 

Il corpo-parola della donna

Come cominciare a dirne qualcosa? Il corpo della donna fa segno e memoria (anche all’uomo) della «capacità dell’altro» (Joseph Ratzinger), iscritta fin nella sua corporeità. Nell’amore, e più ancora nella gestazione, il suo corpo è il luogo allestito per l’altro. Esso infatti può diventare lo spazio dove il filo di tre esistenze e di tre desideri è tessuto nell’opera della madre: il desiderio che lei ha della creatura piccola, quello della creatura tenacemente attaccata al suo grembo e quello del padre che glielo affida perché lei rivesta di carne la parola d’amore pronunciata fra di loro (Françoi­se Dolto). In questa triangolazione, confluiscono anche le attese e le aspettative delle famiglie e delle stirpi di provenienza, così come quelle della cultura di riferimento. Questo addensamento (di pensieri, aspettative, paure) richiede un grande lavoro di filatura e taglio simbolico per districare gli intrecci del desiderio, senza farsi risucchiare nell’immagine materna quale potenza oscura, sen­soriale e arcaica. La gestazione comporta perciò per la donna alcune scoperte fatte sulla propria pelle, corpo e mente (che vengono trasmesse a ogni figlia nella continuità della generazione). In nessun’altra esperienza il corpo è più implicato: come passività (attende, si affida alle risorse della giovane vita, non può contrastare gli eventi espul­sivi) e come attività (lo nutre in se medesimo).

 

In nessuna attività più di questa, la donna deve affrontare la difficoltà di tracciare un confine fra sé e il bambino, fra potenza e impotenza, auto­nomia e dipendenza, donazione e mancanza; deve continuamente fare la fatica di pensarlo senza di lei, operando il passaggio tra la creatura immagi­nata o desiderata, quella che è tutta sua, e il figlio reale, che è altro da lei.

 

In nessun’altra esperienza, lei percepisce a un tempo la generosità e vulnerabilità dell’essere. Custodendo il figlio, la figlia, lei è più intima al mi­stero della vita e della morte. Ciò la protegge dalla volontà di potenza sulla vita; infatti, nell’esperien­za in cui le vite si annodano per sempre, l’essere è avvertito nella sua tenera fragilità. Una donna impara, col tempo e con fatica, che non sempre si può evitare ciò che è andato male, spesso non può far altro che stare in presenza del dolore, più forte che mai se riguarda il figlio della propria carne. E ciò richiede uno sguardo speciale sulle cose e sulle persone (Luisa Muraro). Una donna impara a stare di fronte a ciò che prova, anche alle emozioni negative, senza rifuggirle come se non ci fossero; gradualmente si addestra a non temere il mondo emotivo, suo o del figlio, a riconoscere e dare un nome alle emozioni che prova e quindi a governarle; a contenere e mediare quelle del figlio affinché egli non si senta minacciato dal proprio mondo interno o da quello esterno.

 

Da Gender di Susy Zanardo. Contributi di: Paola Binetti, Livia Turco, Daniela Notarfonso (Città Nuova, 2016)

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