La danza per condividere e incontrare gli altri

Intervista alla danzatrice e coreografa torinese Ambra Senatore, trapiantata in Francia, a settembre al Festival Torinodanza
La danzatrice e coreografa torinese Ambra Senatore

Gli inizi sono stati esclusivamente performativi. Dagli assoli è passata poi alla coreografia di gruppo. In mezzo un percorso fortunato – come lei stessa ammette – che dal Premio Equilibrio l’ha portata ad Avignone e oltralpe. Ambra Senatore, 37 anni, torinese ma trapiantata a Parigi, tra le poche danzatrici e coreografe italiane ad avere una notorietà ormai non solo europea, è reduce, dopo Venezia, da una tournée in Francia e Brasile, e sarà presente al festival Torinodanza (si svolgerà dal 13 settembre al 9 novembre) col nuovo spettacolo John. E il 2014 è fitto di appuntamenti, tra cui in Corea e in Portogallo.

I tuoi inizi sono stati con Roberto Castello e con Raffaella Giordano, componenti storici di Sosta Palmizi. Entrambi sono da considerare tuoi maestri?
«Maestri sono stati tutte quelle persone incontrate fin da bambina che hanno influenzato il mio lavoro. Tra cui Alessandro Pontremoli, docente del mio primo esame di storia dell’arte e poi tutor del dottorato, che mi ha sostenuto nell’idea di essere danzatrice e poi coreografa, fornendomi, anche, gli strumenti di analisi di lettura delle cose. Dal punto di vista più pratico, e non solo, Giordano e Castello, in momenti diversi, mi hanno influenzato, riconoscendovi qualcosa in comune. Cose che avevo in germe senza sapere però dare una forma e una voce».

La tua attività creativa è iniziata con dei brevi assoli. Da quale necessità nascevano?
«Arrivavo da due anni di lavoro di compagnia avendo imparato molte cose, ma con delle difficoltà dal punto di vista relazionale. Dopo questa esperienza avevo voglia di confrontarmi sola con me stessa. Il movente del mio primo assolo, Eda, era questo, e non un bisogno creativo specifico rispetto a un tema. Mi sono messa in sala prove per vedere cosa succedeva, e senza la preoccupazione di cosa potesse arrivare agli altri. Ho scelto così una figura femminile a me molto vicina: mia nonna».

Da un punto di vista fisico hai lavorato sulla frustrazione…
«Non lo avevo deciso a priori, ma dall’osservazione del mio corpo che lavorava in quella direzione, e con la speranza che potesse toccare in qualche modo gli altri. È stato così che ho scoperto il mio aspetto ironico. Da lì in poi si è aperto un cammino che, in seguito, ho dovuto capire come gestire. Questa caratteristica era data contemporaneamente dall’assumere una questione ­­– in quel caso un personaggio, una figura –, ma osservandola con distanza, e da reggere senza voler far ridere».

Questo doppio aspetto permane nei lavori successivi. Quindi l’ironia è una tua indole e non nasceva da una ricerca?
«Non c’era un pensiero a monte. Preso atto di questa qualità, ho cercato di capire come lavorarci. Comunque, questa caratteristica esiste nella mia vita, nella mia persona. Ho la tendenza a osservare con ironia le cose, che non vuol dire viverle, ma farlo per sorriderne».

I tuoi spettacoli hanno una storia, o perlomeno una drammaturgia interna che si fa, in ogni caso, narrazione. Un racconto che, tradotto in movimento, vira nell’astratto. È giusta l’osservazione?
«È interessante quello che dici perché mi rendo conto, prima meno consapevolmente, poi sempre di più, che l’esigenza è cercare di costruire una drammaturgia, da intendersi non necessariamente come costruzione di un racconto chiaro, ma di presentazione di una situazione. All’inizio con gli assoli volevo sfuggirne, ma non riuscivo. La dimensione astratta era lontana. Adesso, con la creazione di gruppo, spero che ci sia un equilibrio maggiore in cui la costruzione drammaturgica non avviene per via narrativa, ma per via di presenze, di azioni, di posizionamenti e presentazioni di segni che, pian piano, cambiano senso, amplificandosi, traslandosi, fino a tessere una specie di rete. Quindi un approdo drammaturgico nella struttura anzitutto, prima che nel contenuto».

Altro aspetto ricorrente è una riflessione sulla natura umana. Nasce anch’essa dalla tua indole di osservazione della realtà?
«I moventi sono di natura strutturale, cioè un’attenzione al “come” costruire e “come” stare in scena, più che a “cosa” portare in palcoscenico. Dopodichè mi ritrovo, di volta in volta, a osservare che il “cosa” è, appunto, la natura umana. Ragionando sulla costruzione, sulla struttura, quello che noi portiamo è, necessariamente, uno sguardo su noi stessi e su altri esseri umani. Quindi, quello che porto in scena è sempre un ritratto d’umanità, ma non è l’ambizione iniziale».

Assistendo allo spettacolo colgo un’attenzione nell'avere un'attenzione verso lo spettatore, a differenza di certi coreografi concettuali che non tengono conto del pubblico, o almeno così sembra. È veramente così? Un’attenzione che significa condivisione…
«Per me è imprescindibile. Prima ancora di parlare di comunicazione, è, come tu dici, condivisione.Quando porto in scena un lavoro, me stessa, e con gli altri danzatori, lo stiamo proponendo a degli sguardi. È una responsabilità grandissima, nel senso che non posso prescindere dal fatto che loro siano lì».

Dopodichè non significa per forza accondiscendere al loro gusto e voler piacere loro…
«Esatto. Certo mi fa piacere se sento che c’è una risposta in quei termini, ma io non voglio piacere al pubblico, desidero incontrarlo. Per me uno spettacolo dal vivo ha senso se c’è condivisone e incontro. Che non vuol dire per forza neanche parlarsi. Fondamentale, e ancora di più a monte, è l’incontro con le persone con cui lavoro».

I danzatori con cui lavori attualmente sono anche autori?
«Quelli coi quali collaboro sono chiamati a creare “i materiali”, cioè scene, momenti, danze, eventi, azioni, brandelli di testi. Poi, chi lancia gli avvii e chi tesse in ultimo i fili, sono io. C’è una differenza nel ruolo autoriale, non è un collettivo. C’è un referente, una guida, e quel ruolo me lo sono assunta io chiamandoli a lavorare con me. Però sono molto creativi e collaborativi, non sono per niente esecutori, e c’è uno scambio ampio, discorsivo, di riflessione su tutto quello che facciamo».

Nel tuo percorso il Premio Equilibrio è stato importante dandoti visibilità. Cosa ha cambiato?
«Mi ha aiutato molto. C’è stata una concomitanza di eventi molto positivi in quel periodo, anche in Francia, per questo devo dire che sono fortunatissima sul lavoro. Spero che esso abbia una qualità, anche se non basta: ci vuole il cinquanta per cento di entrambi».

Da tempo lavori in Francia. Lì c’è la possibilità di poter essere prodotti, di lavorare bene…
«Si ragiona sul merito delle cose, artistico e creativo, su una progettualità possibile, su una fiducia che s’instaura, e che permane nel tempo. In Italia invece, vedo che il problema è che si è sempre nell’urgenza, sull’evento imminente, senza una progettualità».

Danzatrice e coreografa. È quello che volevi fare nella vita?
«In realtà volevo fare l’attrice di cinema, e ancora oggi il mio sogno, a 37 anni, è questo. E un certo tipo di montaggio cinematografico credo si percepisca nei miei lavori. Comunque, se dal cinema mi arrivasse una proposta lo farei. Detto questo, la danza mi appartiene: è una parte di me».

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