La danza? È vita
Roma, luglio. Alle Terme di Caracalla c’è afa. Ma Igor, altissimo nell’abito candido, lo sguardo di fuoco – la sera danzerà nel Romeo e Giulietta di Prokof’ev – non se ne cura. È gentile, informale, schietto. Ultimo di tre figli, genitori appassionati di danza, un nome dal “Principe Igor” di Borodin” “Lo devo a mia madre, innamorata delle danze di quest’opera. I miei infatti avrebbero voluto fare i ballerini, ma non hanno potuto. Allora, hanno trasmesso a me questa passione: a tredici anni mi sono deciso, ho cominciato a provare e ho continuato (ride, ndr). Certo, ho iniziato un po’ tardi, ma avevo un fisico abbastanza lavorato dalla pratica sportiva e questo mi ha aiutato. A quattordici anni, mi sono trasferito a Madrid e sono entrato nella compagnia di Victor Ullate, quasi senza far scuola”. Da allora, una carriera velocissima. Primo ballerino al Ballet de la Comunidad de Madrid nell’89, primo ballerino ospite internazionale dal ’96, tour dall’Italia all’Australia agli Usa al Giappone, in tutto il mondo. Mai tempo per fermarsi? “No, fermarsi è difficile, perché nella vita non si sa mai cosa capiterà domani, perciò è meglio tenersi occupati quando uno ha la salute, le forze, il lavoro soprattutto. La nostra non è una carriera lunghissima: anche se diventi un grande ballerino, devi tener conto del fisico, non si sa cosa può succedere. Del resto, dietro ogni rappresentazione, ci sono giorni di preparazione nei quali uno deve darsi al cento per cento, prima di arrivare al pubblico. Il quale ti dà quell’emozione in più per arrivare più in alto, ma nello stesso tempo ti fa vedere se il tuo lavoro va verso una direzione giusta o meno. “Comunque, è stancante non avere un posto dove fermarsi, pur avendo io la mia casa e la mia famiglia. Ma nella vita non tutto è perfetto”(sorride, ndr)”. Oltre al virtuosismo tecnico e all’eleganza formale, tu curi molto l’espressione dei sentimenti. “Per me è quest’ultimo l’aspetto più importante. Oggi infatti è difficile in- contrare dei coreografi che vogliano raccontare una storia, a volte si può vedere nel ballerino solo il movimento, come fosse una macchina. Invece a me piace arrivare al pubblico facendogli provare ogni genere di emozioni – la tecnica ovviamente ne è il veicolo -, perché dentro di noi abbiamo tutto, dipende da noi cosa vogliamo trasmettere. Per esempio, in un balletto come questo, anche quando non sei sul palco devi rimanere concentrato, perché intanto la storia sta continuando. Questo può stancare il corpo e anche l’anima, più che in un lavoro contemporaneo. Ma mi affascina. In un certo senso, il balletto è anche una specie di terapia psicologica, perché uno fa delle cose che non farebbe mai nella vita (ride di nuovo, ndr)”. Perché, come sei tu nella vita normale? “Io sono una persona abbastanza riservata. Cerco di fare agli altri ciò che vorrei facessero a me, e di non fare ciò che non vorrei mi facessero. Certo, siamo esseri umani e sbagliamo, ma uno vuole comunque sempre dare il meglio di sé. Poi, mi piace conoscere me stesso. Per questo amo la solitudine, e ne approfitto quando sono in giro. “Comunque, se mi chiedono che tipo sono, rispondo: guarda come ballo e lo capirai, perché è questo il linguaggio che uso dall’età di tredici anni per esprimermi ed il modo migliore per farmi conoscere. Quando ballo sono veramente me stesso”. Ecco allora la domanda classica: cosa rappresenta per te il balletto? “Non si tratta semplicemente di un lavoro, ma di una forma, di una maniera di vivere la vita: è una parte del mio cuore che non si può staccare, se no uno muore. Alcuni artisti dicono che a fine carriera smetteranno questo mestiere, io penso che resto un ballerino sino alla fine della vita, anche se non danzerò più, perché il mio animo, il mio pensiero è tutto qui. Come della vita mi affascina tutto, così mi piace tutto del balletto. “Certo, l’arte scenica, paragonata per esempio alla pittura o alla scultura, non ha la durata nel tempo. Noi siamo proprio “dell’istante”, ma è questa la meraviglia, quello che ti fa essere più vicino all’anima della vita, alla bellezza”. C’è chi continua a contrapporre la danza classica a quella contemporanea. Tu cosa ne pensi? “Io sono un po’ stanco di queste contrapposizioni. Per me nel balletto esiste una sola differenza, quello buono e quello cattivo: se un lavoro attuale ha valore, col tempo potrà diventare un classico. Anche se, come dicevo prima, il balletto è un’arte che nasce e muore nello stesso istante in cui si crea: non si può mai dire che resterà per sempre: già il Romeo che ho interpretato ieri è morto, stasera sarà sicuramente diverso”. Ci sono dei ruoli creati appositamente per te: il Principe nello “Schiaccianoci” di Hind, Rinaldo nella “Foresta comincantata” di van Hoecke, Albrect in “Giselle” di Garofoli, Gesù in “Laudes Evangelis” di Massine” Hai delle preferenze particolari? “È sempre difficile dire quale sia l’artista preferito, dipende molto dai momenti. Succede come per la musica: se sei allegro ami Mozart, se ti senti forte, Wagner, se sei triste o meditativo, Bach. Così capita a me con il balletto”. Una carriera tutta in ascesa, danzando nei massimi teatri e con partner di prestigio. Mai passato dei periodi difficili? “Quelli ce li abbiamo tutti, anche se, secondo me, non bisogna farli vedere. Ho vissuto momenti in cui ho riscoperto cosa significava veramente il balletto per me. Succede come quando ami una persona e non sai quanto l’ami finché non l’hai persa. Sei fortunato, se la ritrovi. Questo capita poche volte. Posso dire che a me è successo un po’ questo nel balletto: ho dovuto perderlo del tutto e poi l’ho ritrovato. Ho avuto problemi di salute, temevo di non poter continuare, ma alla fine ce l’ho fatta (sorride, ndr)”. A parte la danza, ci sono altri valori in cui credi? “Io credo soprattutto nelle persone. Per me la cosa più importante non è diventare un grande calciatore o un musicista o un grande ballerino, ma alla fine della vita, quando dovrò fare un bilancio – anche se so che la perfezione non esiste – costatare che ho potuto essere un uomo di valore”. Gauguin ha detto che gli artisti sono allo stesso tempo i più credenti e i più increduli. Cosa ne dici di questa definizione? “Sono d’accordo. Io sono una persona religiosa – sono cattolico – come quasi sempre gli artisti. In alcuni momenti credi di più: sei sul palco, hai una sicurezza tale, le cose vanno in una tale maniera, capisci che questo non lo puoi fare solo tu, esiste una cosa “in più” che te lo fa fare, che ti fa arrivare a trasmettere quella determinata emozione. Nello stesso tempo, quando stai lavorando sodo, stai lottando, con tutto il sacrificio che comporta, hai dei dubbi terribili. Come nella vita, quando tutto fila, crediamo e stiamo bene; quando va male, è più difficile”. Resta però il fatto che con la tua arte riesci a dare felicità a molta gente, come abbiamo notato in queste serate. “Dovrebbe essere questo il nostro lavoro. Perciò me la prendo con certi coreografi o ballerini che puntano solo ad una bellezza esteriore: che ci vuole certamente, perché il balletto è un’arte di bellezza. Ma senza dimenticare che come ci sono i medici per il corpo, noi dovremmo essere i medici dell’anima della gente. Siamo qui per farle dimenticare i dolori della vita, e far sì che questo gli resti per lungo tempo nel cuore. È questa la felicità superiore che un artista, un ballerino può sperimentare. “Oggi, tutto sta diventando tecnico, materiale e gli artisti rischiano un po’ di perdere l’anima. Speriamo che non si arrivi a questo. Ma credo che, come altre volte, accadrà ancora che l’arte salverà l’anima del mondo”.