La cura dell’austerità ha fatto male all’economia?

Alla precaria situazione economica di Spagna e Grecia e alle difficoltà dell'Italia si aggiungono adesso la recessione della Francia e le prospettive negative per la Germania. Che sia arrivata l'ora di invertire la rotta e ridistribuire redditi anche alle fasce più in difficoltà? Un approfondimento
Hollande

Che la situazione economica italiana sia drammatica è un dato ormai acquisito. Le più recenti rilevazioni Istat ci dicono di un ulteriore decremento del Pil (prodotto interno lordo) dello 0,5 per cento negli ultimi tre mesi, e di una riduzione annua che si aggira intorno al -2,3 per cento. Notizia recente è invece che ora anche la Francia, dopo due trimestri consecutivi di crescita negativa del Pil, è entrata “tecnicamente” in recessione. Le previsioni per i prossimi mesi non sono rosee. Anche la Germania, l’inaffondabile corazzata tedesca, sembra si stia dirigendo, lentamente, ma inesorabilmente, verso la recessione. Nel frattempo la disoccupazione cresce in tutti i Paesi dell’Eurozona verso livelli mai sperimentati prima.

Questi non certo incoraggianti risultati arrivano nonostante da molti mesi ormai siano state intraprese misure di riduzione del deficit, attraverso tagli alla spesa e l’introduzione di nuove tasse. L’austerità, però, a quanto pare, non solo non ha fatto ripartire le nostre economie, ma piuttosto sembra che abbia contribuito ad affossarle ulteriormente. Le ragioni dietro questo risultato controproducente sono varie e complesse, ma alcune stanno ora emergendo con grande evidenza.

Innanzitutto non abbiamo saputo reagire alla crisi come avremmo dovuto a causa delle categorie concettuali attraverso le quali abbiamo interpretato quello che stava succedendo. Modelli economici imperfetti, parziali, ultrasemplificati, hanno prodotto, perché utilizzati acriticamente, diagnosi e terapie sbagliate. Abbiamo continuato a credere nell’efficienza dei mercati e nella loro capacità auto-regolante anche quando tutto intorno stava a dimostrare il contrario. Ha recentemente scritto il premio Nobel Joseph Stigliz: «La posta in palio è importantissima e il costo di aver prestato troppa attenzione ai modelli sbagliati degli economisti è stato enorme». Da questa miopia venata d’ideologia sono naturalmente venute prescrizioni quanto mai discutibili, ma che raramente sono state poste in discussione.

La giustificazione principale delle politiche di austerità sta nella correlazione tra il rapporto debito-Pil e la crescita economica. Sappiamo per certo che tale correlazione esiste, ma abbiamo spesso dimenticato che tale correlazione non indica un nesso di causalità. In altre parole è possibile che un alto debito faccia ridurre il tasso di crescita, così come, al contrario, una bassa crescita prolungata nel tempo, come nel caso specifico dell’Italia, possa far aumentare il rapporto debito-Pil, attraverso, per esempio, la contrazione delle entrate fiscali e la maggior spesa per gli ammortizzatori sociali. Le due variabili sono correlate, ma non sappiamo con certezza “cosa causa cosa”. Maggiori spese pubbliche affermano, e non a torto, i critici dell’austerità, potrebbero, attraverso un sostegno alla domanda aggregata, far aumentare il Pil più che proporzionalmente rispetto al debito e quindi innescare un processo virtuoso di sviluppo. Una scelta di questo tipo è stata compiuta nei mesi scorsi dal Giappone (nell’ambito della cosiddetta Abenomics, dal nome del primo ministro Shinzo Abe) che infatti, grazie anche alla svalutazione dello yen, ha visto crescere il Pil, dopo pochi mesi, alla velocità del 3,5 per cento, dato superiore anche a quello degli Stati Uniti.

Un’ulteriore causa dell’inefficacia dell’austerità è legata alla mancanza di politiche redistributive, politiche cioè in grado di trasferire potere d’acquisto da individui ad alto reddito con bassa propensione al consumo verso individui a basso reddito, prevalentemente giovani, persone in difficoltà finanziarie e anziani, che con la loro alta propensione al consumo possono incrementare la domanda complessiva e contribuire a ridurre la disoccupazione. In questo senso si può interpretare l’annunciata rimodulazione dell’Imu e di tutta la materia fiscale in Italia.

Quanto detto non equivale a sostenere che è possibile sconfiggere la crisi solo con una politica di sostegno pubblico alla domanda interna di ogni singolo Paese o che la crescita del debito pubblico non sia un problema, soprattutto per nazioni, come la nostra, già fortemente indebitate e vincolate al rispetto di una politica monetaria comune. Ciò che si vuole affermare, piuttosto, è che tecnicamente ci sono vie d’uscita alla crisi o quanto meno di forte riduzione dei suoi costi sociali, che possono funzionare, ma a patto che vengano concordate a livello di Eurozona. In questo senso si devono accogliere favorevolmente le dichiarazioni del presidente dell'Ue Barroso, secondo cui «bisogna rilanciare insieme il motore della crescita in Europa», e del presidente francese Hollande, il quale ha lanciato una serie di misure che configurano un vero e proprio governo economico congiunto. C’è da sperare che le difficoltà economiche e le elezioni alle porte rendano anche i tedeschi più sensibili e disponibili verso queste proposte.

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