La cultura economica alle origini dell’Europa

Antonio Magliulo (1962) è professore ordinario di Storia del pensiero economico presso il Dipartimento di Scienze per l’economia e l’impresa dell’Università di Firenze. Alcuni suoi articoli di carattere divulgativo sono disponibili online sul sito della rivista Il pensiero storico. In linea con il suo campo di lavoro, centrato sulla storia del pensiero economico europeo, Città Nuova ha voluto approfondire la materia con il docente nell’ambito della rubrica “Ripensare il pensiero alla luce del paradigma della complessità per rigenerare la politica“.
Quale percorso intellettuale ha seguito? Quali sono i suoi rapporti culturali e degli economisti in generale, con i pensatori della complessità come Edgar Morin, Mauro Ceruti ed altri?
Per diversi anni mi sono occupato prevalentemente di storia del pensiero economico italiano andando alla ricerca dei nessi, spesso sotterranei, tra visioni economiche e scelte politiche: per esempio, quale cultura economica ha ispirato la stesura della carta costituzionale o la politica economica della ricostruzione? Più di recente, ma sono ormai passati alcuni anni, mi sono imbattuto in una frase di Marc Bloch del 1935 che, più o meno, suona così: «L’Europa nasce quando l’Impero romano muore». Mi sono chiesto: cosa nasce? Non certo un’istituzione europea. E quando? Nel 476 o nel 1453? Ho così iniziato una ricerca e mi sono imbattuto in un’altra illuminante frase.
Nella prefazione al volume di Oscar Halecki del 1950, Limiti e divisioni della storia europea, il grande storico britannico Christopher Dawson scrive che può sembrare paradossale affermare che la storia europea sia stata un argomento trascurato dagli storici, vista l’enorme letteratura sul tema, eppure è così: il libro di Halecki del 1950 è uno dei primi e dei pochi a considerare l’Europa come una distinta comunità sovranazionale, come un “complesso organico” di nazioni.
Ed è qui, in questo cruciale snodo, che ho incontrato il pensiero di Morin. Gli studiosi di scienze sociali sono sempre stati consapevoli della “complessità” del mondo ma, proprio perché complesso, hanno pensato che fosse necessario studiarlo col metodo della divisione scientifica del lavoro. Ciascuno avrebbe osservato il “mondo” da una particolare postazione – economica, filosofica, politologica… – rinviando la sintesi ad un momento successivo, che però non arrivava mai. Morin ci ha insegnato che “complexus” è ciò che è tenuto o tessuto assieme, per esempio l’Europa, e che per studiare e comprendere un oggetto complesso occorre adottare il paradigma della complessità.
Il caso dell’Europa è stato per me dirimente. Mi sono reso conto che esistevano due storie parallele che non si incontravano mai o raramente: nella storia politica d’Europa l’influenza delle grandi idee o visioni economiche era di fatto irrilevante o marginale mentre nella storia del pensiero economico l’Europa era considerata come un “complesso organico” solo con riferimento alle istituzioni sorte nel secondo dopoguerra. Il fatto è che l’Europa nasce molto prima ed è molto più di un insieme di istituzioni sovranazionali. Mi sono quindi chiesto: quali grandi idee o visioni economiche hanno orientato, influito, ostruito il cammino europeo, dalle origini fino ai nostri giorni?
Nel suo libro del 2019 Gli economisti e la costruzione dell’Europa (Ed. Apes, sviluppato poi in un’edizione inglese del 2022) cita Jacques Le Goff che nel 1993 affermava: «L’Europa si costruisce. È una grande speranza che si realizzerà soltanto se terrà conto della storia». In che senso e in che modo lei ha ripreso l’intuizione di Le Goff?
Sono ripartito da grandi storici come Dawson, Le Goff e Halecki i quali collocano “la nascita” dell’Europa nel medioevo e ho provato a innestare la storia del pensiero economico nella grande storia politica dell’Europa. Ho così cercato di mostrare come alcune grandi idee economiche hanno influito sul cammino europeo, dalla nascita fino ai nostri giorni, dall’influenza esercitata dal pensiero economico medioevale fino all’attuale crisi del neoliberalismo.
L’Europa, anche per me, nasce come un commonwealth di nazioni cristiane e il pensiero economico medioevale, nella duplice versione della Scolastica a Occidente e del pensiero bizantino a Oriente, concorre a chiarificare e consolidare i tre valori che accomunano i popoli europei: una certa idea di libertà (libertas), positiva e negativa, il valore del lavoro (opus) e delle comunità (communitas) che compongono la società civile. Quei valori accompagnano e connotano il cammino europeo, certo in modo zigzagante e a volte regressivo (il “lavoro rende liberi” si leggeva sui cancelli dei campi di concentramento), e sono ancora oggi alla base del modello sociale europeo.
Quella europea è dunque una storia millenaria. Eppure un concreto processo di unificazione economica e politica inizia solo nel secondo dopoguerra. Lo scopo, dichiarato, era la pace: impedire per sempre che una nuova grande guerra potesse scoppiare in Europa. La vera questione, che impegnò e divise le menti (e i cuori) migliori, divenne come unire il vecchio continente. Si confrontarono tre grandi correnti di pensiero europeista: il federalismo, l’internazionalismo e il funzionalismo. Per i federalisti il primo, decisivo, passo nella costruzione europea doveva consistere nella creazione di istituzioni europee: un governo e un parlamento, innanzitutto. Solo un governo sovranazionale avrebbe potuto gestire il processo di integrazione economica. Quando si parla di federalismo si pensa di solito al Manifesto di Ventotene; e in effetti fu il primo tra i grandi testi del tempo.
Ma in realtà esiste una varietà di federalismi. Spinelli immaginava una federazione europea che riducesse i potenti e pericolosi Stati nazionali al rango di deboli regioni per creare un “forte” governo europeo in grado di garantire i diritti sociali. Anche Einaudi voleva limitare le sovranità nazionali ma al fine di creare un “leggero” governo europeo che si limitasse a proteggere il mercato. Infine, De Gasperi, che arrivò tardi al federalismo, non pensò mai di degradare gli Stati nazionali al rango di regioni ma semmai di costruire una comunità sovranazionale fondata sul principio di sussidiarietà.
Gli internazionalisti, d’altro canto, temevano che l’Europa potesse diventare una fortezza aperta all’interno ma chiusa all’esterno e consideravano sufficienti le nuove istituzioni della rinata comunità internazionale (gli accordi monetari di Bretton Woods e quelli commerciali GATT). Alla fine prevalse una terza dottrina, quella funzionalista, che considerò percorribile solo la via della progressiva integrazione economica. Si trattava di un approccio che a me piace definire “funzionalismo federalista” perché, fin dalla Dichiarazione Schuman del 9 maggio 1950, l’integrazione economica è considerata una tappa nel cammino che conduce all’unione politica federale. Questa visione, in cui si riconobbe anche De Gasperi, ispirò le scelte fondamentali degli architetti della costruzione europea.
La storia europea del secondo dopoguerra può essere infatti immaginata come una corsa a ostacoli. Sono serviti quarant’anni, grosso modo dal 1950 al 1990, per costruire un mercato comune o unico o interno e cioè uno spazio in cui fosse garantita, almeno formalmente, la libera circolazione di beni, servizi, persone e capitali (le cosiddette quattro libertà). Poi, per rendere irreversibile il processo di unificazione, si è deciso di adottare una moneta unica, l’euro, e si è scelto, o si è stati costretti a scegliere, una particolare combinazione di politica economica: la politica monetaria è stata centralizzata e affidata alla Banca Centrale Europea mentre la politica fiscale è stata lasciata ai governi nazionali vincolati soltanto a rispettare alcune comuni regole di finanza pubblica.
Infine, è stato commesso il grande errore di imporre l’austerità durante la Grande Recessione del 2008, violando così il costitutivo principio di solidarietà tra i popoli europei. Quell’errore ha generato un’ondata di populismo nazionalistico che non si è ancora esaurita.
In questo senso ha ragione Le Goff: l’Europa è una costruzione, che potrà essere ultimata o proseguita solo tenendo conto della storia e quindi delle difficoltà incontrate nel tempo e delle scelte compiute per superarle.
L’intervista continua in un articolo successivo.
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