La “cultura” della ricostruzione
Dobbiamo ripeterlo e stamparcelo in testa: costruire bene con criteri antisismici, bioedilizia e basso consumo energetico deve essere la regola. Da oggi e per sempre. Non solo il tema di cui parlare, al bar e sui giornali, all’indomani di terremoti, frane e altre emergenze. Dobbiamo lavorare a fondo in questa direzione per costruire nuovi immobili in zone sismiche e meno sismiche evitando che crollino, ma prima ancora per recuperare l’esistente secondo criteri antisismici.
Fino a oggi gli ultimi tre governi hanno insistito molto sulla qualità energetica, sul risparmio e sul basso consumo di energia, in particolare per le costruzioni degli anni Sessanta e Settanta, ma anche per gli edifici del Settecento o dell’Ottocento, abbandonati e da recuperare. L‘Ecobonus del 65 per cento ha permesso di fare buoni investimenti, tra sostituzione di impianti e tecnologie, nonché per la realizzazione di “cappotti termici” (anche da filiera italiana). Ora dobbiamo aggiungere un’altra questione. E cioè quella della prevenzione dal rischio sismico. I comuni delle Alpi occidentali hanno gradi di sismicità compresi tra il 3 e il 4 (su una scala da 1 a 4). Basso o molto basso. Aumenta a nord-est e cresce lungo l’Appennino. Le aree interne, dall’Emilia alla Basilicata, sono tra le più a rischio. Sono composte da migliaia di borghi, frazioni e centri comunali, realizzati nel corso dei secoli, con costruzioni che hanno anche 500 anni, molto spesso ben recuperate, trasformate in hotel o albergo diffuso, in masseria o azienda agricola. È dunque possibile ridurre il rischio di crolli anche per il recupero di borghi alpini e appenninici, di centri storici completamente in pietra?
Dall’Istituto di architettura montana del Politecnico di Torino ricordano la prima cosa fondamentale: una buona progettazione. Sempre. Sia per gli edifici pubblici, sia per quelli privati, una corretta e dettagliata analisi dell’edificio prima di iniziare i lavori è il passo fondamentale. Poi, bisogna fare attenzione a non appesantire le strutture originarie. In molti casi, nei borghi, assistiamo a recuperi che lasciano all’esterno dell’edificio i muri in pietra, il perimetro storico, intervenendo poi all’interno con nuove strutture, in legno o in altri materiali. Ad esempio l’x-lam, pannelli di legno, disponibili dai 4 ai 30 centimetri, autoportanti, sia per muri perimetrali, sia per dividere le stanze. Saranno probabilmente fatte con x-lam anche le strutture provvisorie che verranno montate nelle prossime settimane nelle zone colpite dal sisma, per sostituire le tende. Sono sempre di più le imprese edili e le aziende che si specializzano in questo nuovo sistema costruttivo naturale e veloce: in poco più di un mese viene “assemblata” una casa da 100 metri quadrati, su un unico piano, con tetto. Tutti gli impianti sono già predisposti nei muri in legno incrociato. Il materiale assicura efficienza energetica e resistenza sismica. I costi, rispetto al tradizionale cemento armato, scendono del 25 per cento. E vale bene utilizzare il legno anche per recuperi, realizzando pareti all’interno dei corpi in pietra rimasti in piedi. Può valere anche nei borghi colpiti dal terremoto e comunque nei paesi “abbandonati”: sono oltre 15 mila gli immobili “recuperabili” sparsi nell’arco alpino.
Se progettati adeguatamente, gli edifici “rivitalizzati” possono rispondere a tre esigenze: quella energetica, con una buona qualità di coibentazione, quella sismica appunto, e quella “culturale-architettonica”. Che per intenderci è la necessità di non fare “falsi” cercando di mettere su pietre recuperate (o avvolgerci muri in cemento) per dare all’edificio la sua forma e il suo disegno originario. Nei borghi, sempre l’Istituto di architettura montana del Politecnico di Torino ci insegna che si può innovare negli stili senza fare “casette di Heidi”, ma dando al costruito, i borghi stessi, degli spazi dove vivere e produrre.
Nel dare sicurezza e resistenza sismica agli immobili esistenti, ingegneri e università italiane hanno poco da imparare da California e Giappone. Anzi. Stili, regole e materiali sono misurati, nel nostro Paese, su un patrimonio edilizio storico unico. E così, le università italiane, con gli Ordini degli ingegneri e degli architetti, hanno prodotto negli ultimi vent’anni numerosi studi relativi alla sicurezza sismica, alle piastre che dissipano le onde, al recupero con catene e tiranti, all’uso di materiali come il legno, più elastico rispetto al cemento armato.
Cosa manca? Da una parte una consapevolezza culturale da parte di chi costruisce (committente, progettista, impresa), dall’altra obblighi e precisi impegni dello Stato, dettati con leggi ad hoc. Rispetto al recupero con criteri antisismici, potrà essere utile, oltre alla classificazione annunciata dal ministro Delrio, già in legge, anche una normativa che preveda incentivi fiscali specifici. La carta d’identità dell’edificio, una costante revisione ogni tre anni, l’obbligo di assicurazione, sono alcune delle opportunità che il Parlamento deve valutare al più presto. Da unire a una formazione più efficace, su questi temi, per i professionisti e per le imprese edili, compresi i piccoli artigiani. Sono loro stessi i primi “ambasciatori” della sicurezza e del risparmio energetico.
Non bastano solo i miliardi di euro (forse 20, forse 40) per mettere in sicurezza l’intero patrimonio immobiliare pubblico e privato. Bisogna fare cultura, anche attraverso i media: prevenire con immobili sicuri salva vite umane, primo obiettivo che ereditiamo dal terremoto del 24 agosto. Poi costuire l’urbs, gli edifici, ma soprattutto la civitas, la comunità con i suoi spazi, per generare opportunità economiche, ricorda sempre un bravo sindaco piemontese, Roberto Colombero, alla guida di un Comune com 150 abitanti a 1400 metri di altitudine. Con una certezza, come scrive Enrico Borghi, responsabile per il governo della Strategia nazionale aree interne: «Noi dobbiamo porci e rispondere a una domanda: ricostruire sì, ma per cosa? Bisogna legare la ricostruzione al tema della sussistenza e della vocazione economica e produttiva di quelle comunità, che devono essere ricostruite come territori che vogliono tornare ad essere vivi e non dei musei a cielo aperto».