La credibilità che l’Europa chiede all’Italia
Il sottotitolo di quest’articolo potrebbe essere: “Non è mai colpa nostra”. C’è un’arte italica, quella del vittimismo, che caratterizza la percezione degli eventi, anche della crisi, finanziaria e poi economica, che colpisce il mondo dal 2008.
Pochi mesi fa ci angosciava lo spread, che causava costi esorbitanti per un paese iperindebitato come il nostro. Adesso i mercati sono – per il momento – tranquilli, ma pende sul nostro capo, come una spada di Damocle, la procedura per deficit eccessivo che si concluderà il 29 maggio.
Il deficit pubblico sotto il 3% del PIL è uno dei parametri che ci siamo impegnati a rispettare quando nel 1992 abbiamo firmato il trattato di Maastricht e aderito, con altri paesi dell’Ue, all’euro. Un altro dei parametri da rispettare è il debito pubblico (cioè la somma dei deficit accumulati anno dopo anno) sotto il 60% del PIL (Il debito pubblico italiano è sempre stato intorno o oltre al 100%, ed ha ripreso a crescere dal 2007).
Si tratta di imposizioni liberamente accettate per far parte della moneta unica. In cambio, l’euro ci ha in questi anni protetto dalle tempeste finanziarie internazionali (finche i mercati, cioè gli speculatori, si sono accorti che le economie dei paesi membri della moneta unica divergevano invece di convergere, ed hanno cominciato ad attaccare i più deboli, tra cui l’Italia), e ci ha permesso di beneficiare a lungo degli stessi tassi d’interesse della Germania. Tassi d’interesse così bassi avrebbero potuto permettere ai vari governi che si sono succeduti dal ’92 di intraprendere un radicale risanamento delle finanze pubbliche italiane, per esempio abbassando sostanzialmente il costo del lavoro (cioè la tassazione sul lavoro, non gli stipendi) – come ha fatto la Germania nel 2003, con misure dolorose ma che oggi rendono la sua economia competitiva.
Invece l’Italia non ha realizzato la fondamentale revisione della spesa pubblica, che i bassi tassi d’interesse ed il ciclo economico positivo avrebbero consentito. I maligni dicono che la spesa pubblica ha invece continuato largamente ad essere usata come strumento di acquisizione del consenso elettorale.
Il deficit è il parametro più sorvegliato da Bruxelles, proprio perché dal deficit accumulato deriva il fardello del debito pubblico. Come in una famiglia non si accetterebbe senza far niente di vedere un figlio, o un fratello, spendere mese dopo mese più di quello che guadagna, così l’Europa – magari un modo un po’o più occhiuto e freddo – fa molta attenzione a che nessuno stato sfori il tetto del 3% di deficit. Magari chiude un occhio su sforamenti temporanei, però per l’Italia la Commissione europea ha considerato che lo sforamento rischiava di avere un carattere permanente, anche in considerazione dell’elevatissimo debito pubblico italiano, ed ha aperto nel 2009, per la seconda volta nei confronti del nostro paese, la cosiddetta procedura di infrazione, prevista dai trattati.
Dall’adozione dell’euro in poi in realtà l’Italia ha quasi sempre avuto un saldo del “deficit primario” (il deficit al netto della spesa per gli interessi sui titoli di stato, che costituiscono il debito pubblico) positivo. Ma proprio l’enorme massa del debito (ormai oltre il 130% del PIL) grava sulle nostre spalle come un macigno.
L'ultimo governo Berlusconi ha sì preso delle misure di risanamento dei conti pubblici nel 2010 e nel 2011, misure tuttavia che sono state considerate troppo blande dalla Banca centrale europea nella sua lettera al governo del 5 agosto 2011, in cui la Bce le riteneva insufficienti per raggiungere l’obiettivo del pareggio di bilancio entro il 2014, obiettivo che era stato deciso dal governo italiano stesso.
Le nuove misure adottate dal governo Monti hanno sì stremato il Paese, ma sono riuscite a rassicurare i nostri partner sulla volontà italiana di rispettare gli impegni di tenere i conti pubblici a posto ed ora la Commissione si prepara a chiudere con esito positivo la procedura d’infrazione contro l’Italia. Tale doloroso sforzo avrebbe forze potuto essere di proporzioni minori se l’Italia avesse goduto di un ingrediente che le è mancato drammaticamente: la credibilità. Il 15 maggio l’UE ha permesso alla Francia di rientrare sotto il 3% del debito in due anni supplementari, limitandosi ad un severo rimbrotto sulla situazione delle finanze pubbliche del paese transalpino: un pericolo per l’intera zona euro. Ha ottenuto due anni di tregua pure la Spagna e un anno Paesi Bassi, Portogallo e Slovenia.
La credibilità si costruisce con difficoltà e si perde rapidamente. Dopo i risolini di Merkel e Sarkozy ad ottobre 2011, inaccettabili ma che ben rappresentano l’immagine del paese all’epoca, il governo Monti ha permesso di far risalire le quotazioni dell’Italia, grazie alle sua notevole credibilità personale. Enrico Letta, già eurodeputato, è considerato in Europa persona seria ed affidabile. Godere di credibilità significa anche che, appena conclusa la procedura per deficit eccessivo, l’UE potrebbe consentirci di "sforare" negli anni successivi, per poter rilanciare l’economia tramite nuove misure di spesa. Non senza, però, un credibile pacchetto aggiunto che permetta di raggiungere un risanamento strutturale delle finanze pubbliche.
La credibilità però, dicevamo, si può perdere in un attimo. L’Ue, per aiutare gli stati membri a stabilizzare le finanze pubbliche, sta attuando uno sforzo senza precedenti anche al fine di arginare la frode fiscale. Sono in cantiere nuove misure che prevedono lo scambio automatico di informazioni tra banche e una direttiva nel 2014 per limitare l’ingegneria fiscale delle imprese che facilita tali frodi. Attenzione quindi ai pronunciamenti della nostra giustizia in questa direzione nei confronti di personaggi noti e meno noti: l'annullamento della Cassazione di alcune sentenze solo per motivi di forma quando i fatti di frode sono stati accertati e documentati minerebbe nuovamente la credibilità mettendo in discussione la possibilità di negoziare misure più flessibili.