La coscienza dei magistrati
Le recenti vicende che hanno investito la Magistratura Italiana e che vedono direttamente coinvolto, per la prima volta nella storia repubblicana, il suo organo di autogoverno, mi inducono ad una breve riflessione, una volta superato lo choc iniziale, derivato dalla gravità dei fatti che vedono coinvolti consiglieri della presente consiliatura nonché di quella conclusasi lo scorso mese di settembre.
La tempesta, violenta quanto inaspettata, che si è abbattuta sui magistrati tutti e la cui durata appare, al momento, di difficile previsione, ha già lasciato i suoi indelebili segni ed è certo che ulteriori e più gravi conseguenze lascerà ancora sulla vita e sull’organizzazione dell’intera Magistratura Italiana. Nulla potrà e dovrà essere come prima, una volta che si saranno diradate le minacciose nubi che oggi oscurano il cielo della nostra giustizia.
Sono entrato in magistratura nel 1992, negli anni in cui nasceva e si consolidava l’esperienza di “Mani Pulite”, salutata dalla pubblica opinione come l’inizio di una comune ribellione alle metastasi della corruzione, allora come oggi, purtroppo, dilagante nel Paese. Erano anche gli anni delle stragi di mafia, delle tragiche morti di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, alle quali, tuttavia, il Paese sembrò reagire con una ritrovata voglia di legalità, con un “ricominciare” che desse senso alle morti di tanti servitori dello Stato.
Ho svolto, da sempre, la mia professione con grande spirito di servizio e con una passione che ancora oggi mi accompagna, esattamente come il primo giorno in cui cominciai ad esercitare le mie funzioni di pubblico ministero presso una Procura del Sud Italia. Ero e rimango convinto di poter contribuire – con il mio costante impegno e nell’esercizio del potere conferito a ciascun Giudice nello svolgimento delle sue funzioni – al miglioramento del Paese, che passa anche attraverso la quotidiana e diligente amministrazione dello ius dicere, lontana dai riflettori della visibilità, dell’effimera notorietà a tutti i costi, così divenendo effettivo servizio in favore del popolo italiano, nel cui nome siamo chiamati ad amministrare la Giustizia.
Per queste ragioni, lo scandalo che in questi tristi giorni sembra travolgere uno degli ultimi baluardi a quel sistema di connivenze e di corruttela che giorno per giorno ci viene rivelato dalle molteplici indagini svolte da quella stessa Magistratura oggi chiamata sul banco degli imputati, non può non interrogare la coscienza di ciascun cittadino, e dei Giudici in primis, ferma restando l’assoluta necessità di verificare la fondatezza e la veridicità dei fatti che vengono a vario titolo contestati ai protagonisti delle vicende in questione.
Occorre dunque interrogarsi, a mio parere, su alcune questioni fondamentali che da tempo sono poste all’attenzione della Magistratura e dell’opinione pubblica e che, sinteticamente, individuerei in alcuni temi di fondo: a) indipendenza ed autonomia del Giudice; b) ruolo e rilevanza delle correnti nate all’interno della magistratura; c) rapporti con la politica; d) rapporti con i politici, essendo evidentemente ben diverse tra loro le ultime due questioni.
«Ogni Stato libero, cioè rispettoso della libertà dei singoli, ha sempre avuto nella storia la stessa preoccupazione: che il Giudice fosse libero di giudicare secondo la legge e la sua coscienza». Così scriveva Giorgio Ambrosoli, attingendo all’Apologia di Socrate, nella sua tesi di laurea in Giurisprudenza, dal titolo “Il Consiglio Superiore della Magistratura”. Quanto attuali ed intramontabili mi sembrano queste parole, posto che per poter garantire l’indipendenza e l’autonomia di ciascun giudice e della magistratura tutta, occorre attuare e preservare la vera libertà del giudice “da ogni influenza di qualsiasi organo e individuo” perché “se è chiara la necessità di rendere indipendente il Giudice, è anche evidente che nessuna soluzione definitiva sarà mai data al problema, perché solo la coscienza del Giudice potrà fare in modo che la sua volontà possa determinarsi liberamente, sine spe nec metu”.
A mio parere, resta dunque fondamentale la “coscienza del giudice” alla quale soltanto lo stesso deve essere sottoposto, al pari della Legge. Non sono tuttavia sufficienti le sole regole e le garanzie da questa apprestate, al fine di veder compiutamente realizzata l’indipendenza e l’autonomia della magistratura, sicchè, in un’ultima analisi, concordo pienamente con le conclusioni cui perveniva l’avvocato Giorgio Ambrosoli – vero servitore dello Stato – secondo il quale «solo l’alta coscienza del suo ufficio ed il senso altissimo delle sue funzioni, saprà opporre, ed ha sempre opposto, valida difesa» contro ogni tentativo di limitazione della libertà del Giudice.
È tempo, allora, che si cominci a dedicare, nella formazione dei Magistrati, il giusto e doveroso spazio alla “formazione della coscienza”, investendo in essa le stesse energie profuse ai fini della sua crescita professionale, sia nel corso del tirocinio iniziale, sia durante l’intera vita lavorativa del Magistrato.
Ed è per questa ragione, quindi, che diffido di tutte le proposte che in questo momento, mentre ancora la casa comune sta bruciando, indicano nel “sorteggio dei migliori”, nel sorteggio tout court o in altri rimedi e diversi sistemi elettorali, la strada da perseguire per recuperare il C.S.M. alla sua antica ed unica funzione di Organo di autogoverno della Magistratura e non più luogo di spartizione di un “degenerato” potere. Cosa sarebbe accaduto se, all’indomani della crisi della Prima Repubblica, derivata principalmente dalle indagini della Magistratura, si fosse immediatamente deciso l’elezione per sorteggio del Parlamento e magari del Governo stesso?
(Prima parte)
Francesco Abete è Presidente di sezione civile del Tribunale di Torre Annunziata (Napoli)