La competizione nello sport e nella vita
Nel mondo dello sport professionistico, la competizione è diventata una sorta di campo di battaglia, dove ogni atleta è chiamato a dare il massimo, spesso a discapito del proprio benessere fisico e mentale. Negli ultimi anni, abbiamo assistito a una crescente esasperazione delle competizioni, che ha sollevato seri interrogativi sulla sostenibilità di questo modello. Oggi, la grandezza di un atleta non dovrebbe essere misurata solo attraverso le vittorie, ma anche attraverso il rispetto degli avversari e la capacità di contribuire a un ambiente sportivo più sano e rispettoso. In questo scenario, emerge la necessità di un ripensamento profondo dell’intero sistema sportivo, che torni a mettere al centro il benessere e la crescita personale degli atleti.
Nel panorama sportivo odierno, la pressione sulle spalle degli atleti è insostenibile. La continua ricerca del record, della performance perfetta, della medaglia, ha trasformato la competizione in un’esperienza alienante, dove il rispetto per gli avversari e il valore intrinseco dello sport sembrano essere svaniti. La società chiede ai suoi idoli di essere sempre perfetti, di non mostrare debolezze, di essere invincibili. E, quando questi atleti non riescono a rispettare le aspettative o a mantenere alte le performance, sono vittime di critiche feroci e giustificazioni morali.
L’esasperazione della competizione è evidente in tutti gli sport: dal calcio al tennis, dal basket al nuoto. Ogni giorno, gli atleti devono affrontare un numero sempre maggiore di gare e competizioni, con l’obbligo di migliorarsi costantemente. Il risultato di questo modello è che spesso gli atleti finiscono per concentrarsi unicamente sul risultato finale, sacrificando la propria salute mentale e fisica. La competizione non dovrebbe essere solo una corsa verso il successo, ma una parte di un percorso che valorizza il rispetto per gli altri e l’integrità personale.
Per contrastare questo fenomeno, è fondamentale promuovere un approccio più umano e sostenibile allo sport. Gli atleti, soprattutto i più giovani, devono essere educati a comprendere che la competizione può essere sana, dove l’obiettivo non è solo vincere, ma anche crescere e migliorarsi come individui. Un campione vero non è solo colui che taglia per primo il traguardo, ma chi sa onorare gli altri, riconoscere il valore degli avversari e lavorare per un ambiente sportivo che promuova il rispetto reciproco.
L’importanza di una visione più equilibrata e rispettosa dello sport è testimoniata anche dalle storie di atleti che, nonostante le difficoltà, sono riusciti a emergere con coraggio. Un esempio è Elisa Molinarolo, che ha affrontato il body shaming e ha mostrato a tutti come la resilienza possa trionfare sulle critiche ingiustificate. Allo stesso modo, Valentina Petrillo, che superando le proprie difficoltà (colpita dalla sindrome di Stargardt, che si manifesta a 14 anni e che oggi le permette di vedere con 1/50esimo di visus), dimostra che la competizione non è solo una questione di vittorie sul campo, ma anche di crescita personale, di superamento dei limiti e di affermazione di sé.
Queste storie ci insegnano che la vera grandezza non risiede solo nelle medaglie o nei titoli, ma nel modo in cui gli atleti affrontano le avversità e riescono a diventare modelli positivi per le nuove generazioni. In un mondo che spinge sempre di più verso il risultato, questi atleti ci ricordano che lo sport è anche un mezzo per crescere, per imparare a rispettare gli altri e per celebrare i valori della solidarietà (cfr. la rappresentativa dei rifugiati a giochi olimpici e paralimpici) e della determinazione.
Una delle principali cause dell’esasperazione nelle competizioni sportive risiede nell’attuale organizzazione del sistema sportivo, che spesso risulta rigida. La maggior parte delle discipline sportive è gestita in modo verticale, con una forte divisione tra chi arriva ai vertici e chi non riesce a raggiungerli. Questo modello ha effetti devastanti sulla partecipazione, con milioni di giovani che, appena non riescono a eccellere ai livelli più alti, abbandonano lo sport.
Stando a una ricerca recente, il 75% dei giovani abbandona l’attività sportiva entro i 12 anni. Questo dato è emblematico di un sistema che non riesce ad offrire spazi adeguati alla crescita e al miglioramento di chi non raggiunge subito i risultati sperati. Lo sport dovrebbe essere accessibile a tutti, non solo a coloro che possiedono un talento straordinario. La partecipazione deve essere incoraggiata, e il successo non dovrebbe essere misurato unicamente dalle vittorie.
In questo contesto, i Giochi Paralimpici rappresentano una delle più importanti risorse per promuovere una visione inclusiva dello sport. Atleti come Morteza Mehrzad, che gioca a sitting volley, e Markus Rehm, campione nel salto in lungo, ci ricordano che la diversità non è un limite, ma una fonte di arricchimento per il movimento sportivo. Le loro storie non sono solo esempi di superamento, ma anche di come lo sport possa essere un motore di cambiamento sociale, promuovendo l’inclusione e l’uguaglianza tra tutte le persone, indipendentemente dalle loro disabilità.
Un altro aspetto fondamentale per rivedere l’esasperazione dello sport è la valorizzazione della dual career, ovvero la possibilità per gli atleti di conciliare la carriera sportiva con quella scolastica o professionale. Questo modello permette agli atleti di svilupparsi come individui, senza essere ridotti a macchine da prestazione.
Le scuole, in questo contesto, devono riacquistare il loro ruolo fondamentale nell’insegnamento dei valori della sana competizione. Gli educatori hanno il compito di insegnare ai giovani che lo sport è un’opportunità per crescere, migliorarsi e costruire relazioni, non solo un mezzo per ottenere medaglie o trofei. In questo senso, l’integrazione della formazione sportiva con quella scolastica rappresenta una chiave per un futuro più sano e più equilibrato, che rispetti i tempi e i bisogni degli atleti.
Un esempio lampante dell’esasperazione nella programmazione sportiva è la dichiarazione di Carlo Ancelotti riguardo alla sovrabbondanza di competizioni a cui gli atleti sono sottoposti. L’allenatore ha sottolineato che il periodo dal 14 agosto 2024 al 13 luglio 2025 vedrà gli atleti in una condizione di stress costante, con una sequenza ininterrotta di gare e tornei. In questo scenario, la salute mentale e fisica degli atleti non può che risentirne. Il modello attuale, che obbliga gli sportivi a un calendario sempre più fitto, non tiene conto dei rischi legati all’esaurimento fisico e mentale (con conseguente aumento degli infortuni e a volte impossibilità a rimanere fedeli al codice etico della società sportiva di appartenenza). Anche coach Ettore Messina, Olimpia Armani Milano, campionato A1 di pallacanestro, interviene su questo tema: «Troppe partite, tanti infortuni: “Bisogna tutelare i giocatori”» (Gazzetta dello Sport, D. Romani, 5 novembre 2024).
È ora che il mondo dello sport inizi a riflettere sulla sostenibilità di un modello che mette al centro solo il risultato e non il benessere dell’atleta. La salute fisica e psicologica degli atleti deve diventare una priorità assoluta, e la pressione su di loro deve essere rivista in un’ottica più equilibrata. Così si esprime Petrucci, presidente Federale Pallacanestro: «Mi auguro che il suo messaggio (quello di Messina) [art. cit.], serva a cambiare».
L’esasperazione della competizione sportiva è una realtà che non possiamo più ignorare. Il sistema sportivo attuale, spesso eccessivamente competitivo e focalizzato sui risultati immediati, sta rischiando di minare il benessere degli atleti. È essenziale che lo sport torni a essere un’esperienza inclusiva e formativa, che valorizzi il rispetto, la crescita personale e collettiva, dove chi vince è la “relazione” piuttosto che ridurre gli atleti a meri strumenti di successo. Solo promuovendo un ambiente sportivo più sano, rispettoso e attento alla salute degli atleti, potremo assicurare che lo sport rimanga una fonte di ispirazione e benessere per le generazioni future.