La compagnia del cigno, una storia vincente
Ricorda un po’ il sergente Hartman di Full Metal Jacket, il professor Marioni de La compagnia del cigno, interpretato da Alessio Boni sotto la direzione di Ivan Cotroneo.
In realtà, il modello a lui più vicino sarebbe l’insegnante musicale durissimo, ossessivo nella ricerca della perfezione, del film Whiplash, del 2014, esordio alla regia di Damien Chazelle (l’autore che poi avrebbe vinto l’Oscar con La La Land). Lo ricorda, ma con molte differenze, perché l’uomo del film era una creatura senza luce, un buco nero misterioso che risucchiava il giovane musicista protagonista in un vortice di negatività senza progetto costruttivo alcuno, portandolo a una corsa folle verso l’autodistruzione.
Certo, anche il Marioni di Alessio Boni – detto “il bastardo” dai suoi allievi – mette a dura prova chiunque capiti a suo tiro, fisicamente e psicologicamente, ma pian piano, andando avanti con le puntate, lentamente inizia a prendere forma la sua umanità, e soprattutto il suo fine: evitare a futuri uomini il fallimento professionale – e/o esistenziale -, magari dovuto a un’insufficiente attenzione dei professori nel testare le qualità del potenziale professionista, sia tecniche che mentali.
Addirittura, quando a un certo punto Marioni verrà sospeso dal lavoro – proprio a causa dei suoi metodi troppo decisi e diretti -, gli allievi ne avvertiranno mancanza, perché anche loro – non senza sacrifici -, hanno intuito il senso sano della sua condotta. Insomma, Marioni al bene e al futuro dei suoi ragazzi ci tiene eccome.
Ma è anche un uomo segnato dal dolore più grande: la perdita di un figlio, ed è una ferita, questa, che sanguina ogni giorno e ogni notte, rendendo ancora più difficile l’accenno di un sorriso agli adolescenti che ogni giorno suonano per ore davanti al suo sguardo fermo e serissimo.
Loro, gli studenti, tutti insieme, sono l’altro grande protagonista della serie in onda su Rai uno dal 7 gennaio scorso, fino al 4 febbraio prossimo, prodotta dalla Indigo film di Nicola Giuliano e Francesca Cima. Giovani normali, nel senso di realistici, comuni, tutt’altro che montati, presuntuosi o spavaldi, al contrario sobri e quasi timidi nel custodire il loro talento cristallino per la musica.
Sono figli di famiglie molto imperfette in modo diverso l’una dall’altra, adolescenti coi loro guai e le loro risorse, salvati almeno da tre cose: dalla passione per la musica, intesa come possibilità di esprimere se stessi – non di arrivare in tv o cose del genere –, dalla disponibilità al lavoro, al sacrificio e alla disciplina, e (forse soprattutto) dalla capacità di fare gruppo, intesa come possibilità di raccontarsi le proprie paure e insicurezze, le proprie necessità, di colmare reciprocamente i propri vuoti.
Vivono serenamente quel desiderio umano di stare in relazione che diventa essersi accanto lungo le difficoltà del cammino e aggiungere, attraverso l’altro, quei pezzi di noi che non ci sono stati dati in dotazione. Vengono da tutta Italia, i sette ragazzi del Conservatorio Giuseppe Verdi che Marioni ha messo insieme per far inserire l’ultimo arrivato: Matteo, che suona il violino divinamente e viene da Amatrice, dove sotto le macerie del terremoto ha perso sua madre, senza essere riuscito a elaborare il grande lutto. Cosa oggettivamente non semplice.
Anche gli altri ragazzi vengono da tante Italie diverse, da quella povera del Sud arriva Domenico, ad esempio, il bravissimo pianista del gruppo, che é di Agrigento ed ha un padre operaio molto scettico quando scopre che suo figlio si è fidanzato con Barbara, altro tassello della compagnia, ma figlia di una certa Milano benestante. Al di là delle singole storie (abbiamo la malattia, la separazione dei genitori, i chili di troppo, la diversità raccontata in tanti modi, la paura di vivere in sentimenti, il tema dei figli dati in affidamento perché una madre ha problemi di droga), La compagnia del cigno è giocata sul contrasto tra unità e solitudine, e c’è una metafora, all’inizio delle puntate, che racchiude un po’ il senso del racconto: partendo da Shakespeare, Matteo fa un ragionamento sulle note musicali: prese da sole non danno emozioni, non hanno molto senso, non portano a nulla di grandioso; se invece si combinano tra loro, interagiscono, si danno di continuo e infinitamente il cambio, producono qualcosa di straordinario.
Ed ecco il racconto di un’unità che diventa energia a gogò e bellezza, e fa di quella raccontata in questa serie una “meglio adolescenza” silenziosa, fatta di piccole cose, diversa da quella cupa e disperata raccontata in altre serie recenti, da Tredici a Elite fino a Baby. Qui si costruisce in qualche modo un racconto del bene di cui c’è bisogno, che più che insistere sul buio in cui i giovanissimi possono finire, sulle tenebre in cui nuotano, racconta le loro capacità, la loro acerba energia e il dono grande che sono, alimentando la fiducia in loro stessi, ed anche in chi con loro è chiamato a confrontarsi ogni giorno.
La regia che li racconta cerca di mettersi al loro fianco ascoltandoli a lungo, spesso inquadrandoli dentro notti illuminate, dove il buio è accompagnato, combattuto, dalle luci di una città – in questo caso una Milano almeno coprotagonista -, che è uno spazio urbano accogliente, non ostile, che sostiene in qualche modo il viaggio dei ragazzi.
Poi ci pensano loro stessi, gli adolescenti della compagnia, a volte – con una modalità espressiva che Cotroneo aveva già ultilizzato in passato – a squarciare la normalità, la routine e la fatica, con una canzone. Capita spesso, infatti, che uno dei protagonisti (tutti interpretati da veri musicisti) oppure loro tutti insieme, inizino a cantare un brano pop famoso e a danzare come dentro un videoclip. Più in generale, la musica avvolge ogni pagina del racconto, assumendo un ruolo da protagonista in La Compagnia del cigno, che rappresenta un altro passo verso una serialità d’autore in chiaro più capace di osare nel linguaggio e di assottigliare il confine sia con il cinema che con i prodotti seriali più di nicchia di piattaforme come Netflix, ad esempio.