La Colombia fissa l’appuntamento con la pace
Lo si potrebbe definire un “appuntamento con la pace”. Mi riferisco allo storico accordo raggiunto tra il governo del presidente Juan Manuel Santos e la guerriglia delle Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (Farc). Il prossimo 23 marzo, secondo quanto annunciato da Santos e dal leader del gruppo armato, Timoleón Jiménez (alias Timochenko), le parti firmeranno la fine di mezzo secolo di conflitto armato interno. Non oltre due mesi dalla firma, le Farc dovranno lasciare le armi.
L’annuncio è stato realizzato da Cuba, dove si svolgono da quasi tre anni i negoziati, proprio mentre il papa lasciava l’isola. Quasi un frutto della presenza di Bergoglio che al suo arrivo nel Paese aveva sottolineato l’importanza di raggiungere la pace in Colombia.
Sarà possibile apporre la firma al documento che chiuderà questo capitolo della storia colombiana perché sono stati accordati gli ultimi e più delicati punti dell’agenda dei negoziati: quello della forma di giustizia da applicare nel caso dei numerosi crimini di guerra commessi dalle parti, e quello della trasformazione delle Farc in un movimento politico che si inserirà nel sistema democratico del Paese.
In materia di giustizia si procederà a una amnistia che contempli i delitti politici e quelli assimilabili come tali. Non rientrano nell’amnistia di crimini di guerra che contemplino delitti di lesa umanità. Questi ultimi saranno di competenza di un tribunale speciale, con varie sale composte da magistrati nazionali, con una presenza minoritaria di alcuni togati internazionali. Gli accusati che ammetteranno la propria colpevolezza riceveranno pene tra i 5 e gli 8 anni di restrizione effettiva della libertà in condizioni ordinarie. Nel caso che sia richiesta una pena alternativa, la persona beneficiata dovrà impegnarsi nel suo reiserimento attraverso attività di lavoro, di formazione o di studio durante il periodo di privazione della libertà. Coloro che invece non riconosceranno la propia responsabilità e nel corso del processo saranno dichiatati colpevoli, saranno passibili di una pena ordinaria fino a 20 anni di reclusione. Il tribunale speciale agirà nei confronti di tutti gli implicati in crimini di lesa umanità, siano essi guerriglieri, membri dell’esercito o agenti dello Stato.
In sostanza, si assicura che non ci sarà impunità. Il governo del presidente Santos assicura così anche la certezza del diritto evitando che eventuali amnistie siano successivamente annullate dal sistema americano di protezione dei diritti umani, del quale la Colombia è parte.
In merito al secondo punto, il governo collaborerà, con le garanzie necessarie, alla trasformazione delle Farc in un movimento politico come un obiettivo comune alle due parti. Il che significa evitare, una volta smobilitata la guerriglia, che i suoi membri siano oggetto di vendette o rappresaglie.
Le reazioni in Colombia sono state in sostanza buone. Appare chiara a tutti la necessità di mettere fine al conflitto. La questione è se il prezzo da pagare sia o no accettabile. Se i settori che sostengono il processo di pace condotto da Santos sono a favore degli accordi presi a Cuba, per il conservatore centro democratico diretto dall’ex presidente Alvaro Uribe, mettere sullo stesso piano sovversivi e membri delle forze armate è praticamente inaccettabile. La sola idea che nel giro di pochi anni i leaders delle Farc potrebbero condividere lo stesso Parlamento viene in principio rifiutata.
È vero che le Farc non godono di quasi nessuna popolarità. Fino a qualche mese fa i sondaggi indicavano che per l’82% dei colombiani in qualche modo la guerriglia doveva rendere conto alla giustizia. Ma è pur vero che siamo di fronte alla possibilità di ottenere la fine di un conflitto estenuante, al dominio dei guerriglieri in alcune regoni del Paese, spesso in combutta col narcotraffico, tra le principali forme di finanziamento del gruppo. Per l’ex generale Herlindo Mendieta, sequestrato per 12 anni dalle Farc, è importante che le vittime siano d’accordo con le pene alternative. «Uno dei punti più importanti è che le Farc riconoscano le loro vittime e i danni provocati con un atto di pentimento, di mea culpa». Per il militare quando la guerriglia avrà collaborato a ritrovare i “desaparecidos”, avrà liberato i sequestrati «e siano state date garanzie di riparazione e di non ripetizione, le vittime saranno d’accordo che sia applicata una pena che non sia di reclusione».
Una posizione simile a quella di Gloria Salamanca, leader del gruppo che riunisce i familiari dei “dasaparecidos”. “Accetto che i membri delle Farc che riconoscano i propri delitti non vadano in prigione. Ma siamo 7,5 milioni di vittime del conflitto, tra le quale migliaia di desaparecidos… Io so che qualcuno dei guerriglieri deve sapere che fine hanno fatto i nostri famigliari, dove sono i loro resti. Vogliamo mettere fine al lutto”. Non tutti la pensano cosí. Farid Alberto Usme, rappresentante delle vittime della provincia di Antioquia, é dell’idea che va applicata la galera. “E’ importante che la comunitá internazionale partecipi di questo processo”, sostiene piú conciliante la senatrice Clara Rojas, sequestrata durante sei anni dalla guerriglia, a favore di servizi sociali che permettano il reinserimento una volta verificato il pentimento dei colpevoli.
Come si vede, la strada da fare é ancora lunga. L’accordo raggiunto mette pressione anche agli altri gruppi guerriglieri, come l’Eln, che forse coglieranno l’occasione per unirsi al processo generale di pacificazione. Nel mezzo, la riparazione dei danni sofferti dalle vittime, il ritorno degli sfollati, poter tornare alla propria cada, la terra, il lavoro, in definitva, il futuro. Ci saranno infiniti dettagli da affrontare per continuare ad avanzare in questo processo fondamentale per un Paese che ha voglia di vivere e di continuare a sorridere. Intanto si comincia con lo smantellare la guerra. Poi bisognerá costruire la pace.