La città di Telesio

Una puntata nel cuore antico di Cosenza. Tra icone mariane, regali mausolei e storici caffè

 

Alla città fondata nel IV secolo a. C dai bruzi alla confluenza del Busento e del Crati non sono mancati, negli ultimi anni, riconoscimenti al suo patrimonio storico e artistico: nel 2008, infatti, Cosenza veniva dichiarata “città d’arte” dalla Regione Calabria e nel 2011 la sua cattedrale diventava patrimonio Unesco. Eccezionale rilevanza hanno il Castello svevo di Federico II che domina la città dall’alto del colle Pancrazio, il Museo dei Brettii e degli Enotri nel quattrocentesco complesso di Sant’Agostino, la Galleria nazionale di Palazzo Arnone, il Museo all’aperto Bilotti di Corso Mazzini, unico nel suo genere in Italia, l’Accademia Cosentina, una delle più antiche d’Europa, e il concentrarsi di chiese, conventi, palazzi ed edifici monumentali nel suo centro storico, tra i più estesi e ricchi del Meridione.

Eppure anche il più distratto frequentatore di Cosenza vecchia, accanto ai rinomati corso Telesio, piazza XV Marzo o Villa Rendano, non può non deplorare i molti, troppi edifici anche signorili disabitati e lasciati al degrado, la scarsità di negozi aperti, mentre i pochi ancora attivi sembrano avamposti che solo aspettano di arrendersi. Uno spettacolo che stringe il cuore, come davanti ad una nobildonna con ancora i segni della passata bellezza, ma ormai decaduta. E stringe il cuore tanto più dopo l’incendio dello scorso agosto che, insieme a tre povere vite di abusivi abitanti di uno stabile abbandonato proprio di fronte al duomo, proprietà Bilotti Ruggi D’Aragona, ha distrutto arredi, opere d’arte, preziosi libri e documenti antichi per i quali non si è potuto o saputo trovare sede migliore.

Sul fenomeno dello spopolamento e abbandono del nucleo antico cosentino si è già detto il possibile: tra le voci più autorevoli, quella del critico d’arte Vittorio Sgarbi, per qualche tempo assessore al comune di Cosenza con delega proprio per il centro storico. Più che aggiungere del mio, voglio invece soffermarmi sul suo cuore, ancora pulsante nell’Ottocento, e oggi ancora più silenzioso e intristito dopo la recente tragedia: quella piazza del Duomo o piazza Grande che nel corso dei secoli ha cambiato più volte il nome, passando da piazza del Seggio (per via del “Sedile” dove si riunivano gli amministratori cittadini) a piazza degli aromatici e degli speziali, a motivo dei farmaci che vi venivano venduti dal XVI secolo.

L’irregolare slargo è dominato dall’imponente cattedrale dedicata a Maria Assunta, la cui storia millenaria (è stata eretta verso la metà del XI secolo) è testimoniata dalle tracce di più stili architettonici, anche se i restauri del secolo scorso, eliminando le sovrastrutture barocche, hanno cercato di restituire all’edificio, sia all’esterno che all’interno, i primieri connotati romanico-gotici.

Lungo la navata di sinistra la cappella dedicata alla Madonna del Pilerio custodisce la miracolosa icona bizantina del XII secolo del tipo Galaktotrophousa (“colei che dona il latte”) raffigurante appunto la Madonna che allatta il Bambino. Il culto a questa effige su tavola risale all’anno 1576, quando la popolazione cosentina, stremata da una devastante peste, attribuì alla sua intercessione la regressione del flagello. In seguito a questo evento, la Madonna del Pilerio venne eletta patrona di Cosenza. Il titolo col quale è venerata potrebbe derivare da pilos, colonna o pilastro sul quale, in un primo tempo, l’icona era stata esposta (senza escludere l’influsso della devozione alla patrona di Spagna, la Vergine del Pilar, anch’essa collocata su una colonna); oppure da puleròs, guardiana, custode: era infatti usanza bizantina porre le icone a custodia delle porte urbiche.

In un’altra cappella sono sepolti i membri calabresi della spedizione antiborbonica dei fratelli Bandiera del 1844 (Attilio ed Emilio hanno invece sepoltura nella loro città d’origine, Venezia). Ma i più importanti mausolei sono quello in stile gotico della regina di Francia Isabella d’Aragona e quello, ricavato in un magnifico sarcofago romano, di Enrico VII di Hohenstaufen re di Germania. Indagini recenti sui resti del figlio ribelle di Federico II hanno confermato che fu affetto da lebbra lepromatosa, causa anche del suo probabile suicidio in un dirupo a Martirano, in Calabria, mentre veniva trasferito in una delle fortezze alle quali il padre lo aveva condannato. Altra tragedia, stavolta del XIII secolo.

Scomparsa invece, durante i restauri del XVIII secolo, è la tomba del grande filosofo e naturalista cosentino Bernardino Telesio morto nel 1588. Distrutta o solo occultata perché la sua dottrina che ispirò Giordano Bruno, Cartesio, Francis Bacon e Tommaso Campanella non sempre concordava con quanto insegnava la Chiesa? Oggi della sua cappella di famiglia resta solo il Crocifisso ligneo che pende dall’arco del presbiterio. Ironia della sorte: nell’incendio accennato sarebbe andata distrutta, insieme ad alcuni manoscritti appartenuti allo stesso Telesio, la prima copia a stampa del De rerum natura iuxta principia propria, la discussa sua opera maggiore.

Ritroviamo invece Federico II in uno degli oggetti di maggior pregio artistico esposti nel vicino Museo diocesano, in piazza Parrasio: una stauroteca in oro sbalzato, filigrane, smalti, granati, adamantini e cristallo di rocca. La tradizione vuole che questo reliquiario destinato a contenere frammenti della croce di Cristo sia stato donato dall’imperatore svevo in occasione della consacrazione della cattedrale nel 1222. Gli fanno corona, nel percorso espositivo ricavato in alcuni ambienti dell’ex seminario, altri gioielli del patrimonio storico-artistico proveniente dalla cattedrale e dal territorio diocesano, databili dal XII al XIX secolo: suppellettili sacre, paramenti liturgici, sculture, dipinti e, tra questi ultimi, riproduzioni di varia epoca dell’icona mariana del Pilerio.

A pochi passi dal Museo e dell’attiguo palazzo arcivescovile lo storico Gran Caffè Renzelli è il tradizionale appuntamento per il dopoteatro (siamo vicini al Rendano) e salotto letterario allo stesso tempo. Da qui, stando alle cronache dell’epoca, venivano inviati dolci e sorbetti per alleviare la detenzione carceraria dei fratelli Bandiera e degli altri patrioti. E qui, mentre venivano condotti dai gendarmi alla fucilazione nel Vallone di Rovito, essi sostarono per un ultimo ristoro. Gestito da più di duecento anni dalla stessa famiglia, il Renzelli è un laboratorio di autentiche delizie che denotano l’influenza catalana e napoletana: partenopeo, infatti, era Raffaele Ferrari, trisavolo dell’attuale proprietario, che agli inizi dell’Ottocento introdusse a Cosenza la tradizione dei pasticciotti di pasta frolla con la crema e l’amarena, dei susamielli e dei roccocò. Mentre ha origini spagnole il dolce oggi più rinomato del locale: la varchiglia (barchetta) alla monacale, cui s’aggiungono caramelle, torroncini, panettoni e colombe artigianali a Natale. Per gli amanti delle atmosfere alla Belle Époque si aprono le salette rossa e verde, arredate in stile liberty con foto storiche e strumenti disusati dell’arte caffettiera e dolciaria. Versione moderna del Renzelli è il nuovo caffè di Corso Umberto.

E anche questa è storia.

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