La città plurale: tra esodo e ospitalità
La prospettiva di un nuovo umanesimo, di cui si comincia a riparlare, si concentra e per molti versi si risolve nell’immaginare e nell’educarci ad abitare la città plurale che viviamo. Perché la città è simbolo del nostro destino, essendo arte e risultato del mettere insieme gli uomini tra loro, il Divino con essi e il giardino che ci ospita con le opere e i negozi di chi la abita.
Ma il sým-bolon della città è insieme, da sempre, luogo e tentazione del diá-bolon, e cioè del divisore. Perché può essere immaginata e costruita, da chi vi è dentro, per esclusione rispetto a chi vi è fuori: o perché straniero e nemico o perché dalla città espulso o emarginato o rifiutato.
La città in effetti è oggi sotto assedio. Non da parte dell’esercito di una qualche città nemica. Ma per l’imponenza delle trasformazioni e dei mutamenti che agitano la nostra epoca e destrutturano il nostro mondo. Non li sto a elencare, tutti li conosciamo, almeno per la loro enorme forza d’urto: movimenti migratori, globalizzazione dei mercati, crisi economica e, prima, crisi dello spirito, tecnologizzazione del progetto dell’esistenza…
Le sfide non sono poche, né piccole, per la città. Non è possibile decifrarle e tanto più padroneggiarle da soli. Dobbiamo guardarle, discernerle e assumerle insieme. Innanzitutto è importante riprendere coscienza, con sguardo largo e profondo, di che cosa la città rappresenti nella storia dello spirito. È un approfondimento o persino una conversione dello sguardo ciò che ci è imposto. Non di meno.
La città è via via prodotto di cambio culturale, di processo economico, di necessità strategica: ma, in origine, è fatto dello spirito. È, cioè, dilatazione e arricchimento del destino libero e responsabile dell’uomo che intreccia rapporti stabili e multipli con gli altri e costruisce un’impresa comune, proprio così coltivando la sua personale identità. I centri storici delle nostre città trasudano, ogni volta che li attraversiamo, di questo significato e di questa conquista, nella pluriformità delle loro espressioni.
A ogni momento del procedere della storia corrisponde, dunque, una figura di città che ne esprime l’equilibrio raggiunto, e al tempo stesso lo apre, squilibrandolo in avanti, verso una tappa altra e nuova. La città, in altri termini, è profezia che spinge da dentro l’uomo verso quel se stesso che è al di là di se stesso. Ecco il paradosso che viene a giorno, radicalmente, nella storia d’Israele. Israele è quel popolo che nasce e vive nell’esodo, è sempre di nuovo chiamato “fuori”. E proprio così, in forza di questa con-vocazione che lo chiama “fuori”, è assemblea di quella città “plurale” – annunziata dai profeti – verso cui sono idealmente incamminati tutti i popoli: Gerusalemme.
Che non è la compressione o l’estenuazione delle diversità, ma definisce lo spazio entro cui le diversità possono dispiegarsi come tali – nell’incontro con le altre diversità. Perché Gerusalemme, come profezia, è il luogo della risposta libera dei molti alla gratuita convocazione dell’Unico. Lo canta in modo intenso e oggi forse più percepibile per le nostre orecchie e il nostro cuore il Salmo 87:
«Si dirà di Sion:
“L’uno e l’altro in essa sono nati
e lui, l’Altissimo, la mantiene salda”.
Il Signore registrerà nel libro dei popoli:
“Là costui è nato”.
E danzando canteranno:
“Sono in te tutte le mie sorgenti”».
Di questo la città è profezia.
«Non siete più stranieri né ospiti ma concittadini dei santi» – scrive la lettera agli Efesini –, guardando a Gesù, crocifisso “fuori” dalle mura: non per demonizzare la città, ma per risvegliare in essa la vocazione esodale che la fa tale e, proprio per questo, ospitale nei confronti dello straniero. Così che anche coloro che vogliono essere discepoli di Gesù – scrive la lettera agli Ebrei – debbono uscire «verso di lui, fuori dall’accampamento» (Eb 13, 13).
Solo chi vive come città in questo “uscire” sa condividere il sapore fragrante dell’ospitalità: quello di farsi ospite e d’accogliere l’ospite come grazia.