La città dei tessitori

Momostenango, nel Guatemala, è famosa per il suo artigianato tessile. Ma c’è anche chi, come il suo poeta Humberto Ak’abal, si definisce “tessitore di parole”. Fascino di una cultura indigena, quella dei maya, in cui l’uomo vive in intensa comunione con la natura, gli oggetti e i propri simili
Il poeta Humberto Ak’abal

Siamo a 2.200 metri di altitudine tra le montagne del Totonicapán, uno dei 22 dipartimenti in cui è diviso il Guatemala, nella parte occidentale del Paese. Grappoli di case bianche si arrampicano un po’ alla rinfusa dal fondovalle. Nel centro storico aggraziati edifici e chiese in stile coloniale si crogiolano al sole. Per trovare un po’ di ombra niente di meglio che passeggiare sotto i portici che cingono la piazza principale, selciata con ciottoli. E qui trovi una popolazione in perpetuo movimento, tra cui spiccano sorridenti vecchie grinzose e bambini vivacissimi dagli occhi a mandorla. Coloratissimi i costumi indigeni, come pure le smaglianti coperte sciorinate e offerte con grazia ai forestieri. Si rimane stupefatti dalla bellezza di questi manufatti di lana, ma ancor più – a palparli – dal non indifferente peso. E i venditori, che proprio questa reazione si aspettano, ridono di gusto, fieri delle loro chamarras, per le quali è famosa Momostenango.  

Ma oltre al suo artigianato tessile, la città ha altre attrattive: negli immediati dintorni, tra verdi colline, si ergono insospettati agglomerati di pietra pomice le cui guglie appuntite fanno venire in mente l’arte gotica: queste meraviglie create dalla natura in un suolo vulcanico facevano da sfondo ai riti religiosi degli antichi abitanti di questa terra, riti che ancor oggi si ripetono – per la gioia dei turisti – il 24 febbraio, capodanno nel calendario maya. E altre tradizioni di quel nobile popolo continuano nei loro discendenti: penso all’arte medica. Sembra infatti che a praticarla in città siano circa trecento “uomini di medicina”, i quali ostentano come insegna, davanti ai bugigattoli dove ricevono i loro clienti, una piccola borsa contenente fagioli e cristalli di quarzo.

Per i maya la parola e il pensiero sono all’origine del mondo. Con la parola, anche secondo altre antiche culture, si chiama all’esistenza o si distrugge, si fissa un destino. Le parole non nominano semplicemente la materia, ma sono materia; componendole in un certo ordine, si può dar vita ad un mondo. Non può essere che sacro lo spazio «dove si chiama all’esistenza»; ed ecco allora che la parola tessuta – e tale è la poesia – manifesta un’affinità con l’esperienza religiosa.

Tutto ciò si ritrova nell’opera letteraria di un guatamalteco di qui, Humberto Ak’abal, classe 1952. Figlio e nipote di sciamani di etnia maya k’iche’, la stessa di Rigoberta Menchù (Premio Nobel per la pace), si definisce un indio pobre (un indio povero), costretto a fare il nobile mestiere del poeta – dagli antichi venerato alla stregua di un saggio – fra un lavoro e l’altro. In lui, rappresentante di un popolo umiliato, oppresso e ridotto in miseria, sembra che dopo secoli di forzato silenzio questa parola creativa torni ad esprimersi con forza, in nome della collettività indigena.

Dopo una vita passata a fare il pastore di greggi, Ak’abal è ormai un nome conosciuto anche all’estero per le opere come El animalero, Guardián de la caída de agua e altre, tradotte in francese, tedesco, inglese e portoghese, oltre che per le conferenze e letture poetiche da lui tenute in varie città d’Europa. In Italia la sua antologia poetica Tessitore di parole è stata pubblicata da Le Lettere. Come dice Martha L. Canfield, autrice della prefazione, Ak’abal (che scrive in k’iche’, usando il linguaggio parlato, e si autotraduce in spagnolo) è capace di trascinarci «in un contatto diretto con una percezione del reale diversa dalla nostra solita… Perché quello che ci restituisce Ak’abal – come altri poeti indigeni dell’America attuale – è la comunione tra parola pronunciata e realtà creata, quindi fa rimarginare per un attimo quella terribile ferita dell’uomo contemporaneo, causata dalla scissione fra uomo e mondo, fra mondo e Dio».

A sua volta Emanuela Jossa, la cui versione è riuscita a mantenere la grazia e la leggerezza dell’originale, sottolinea come tipico della cultura maya il «dialogo costante con la natura, di cui l’uomo, come tutti gli elementi, fa parte». «Tutta la natura parla, anche le pietre: il poeta è colui che sa ascoltare».

Qualche esempio? «I poeti – I poeti/ sono come le api:/ altri mangiano ciò che loro fanno»; «Gorgoglii – Oggi l’acqua/ nasce a gorgoglii/ nel mio cuore./ Mi bagna/ la freschezza di un canto»; «Un’asse – Vorrei esser/ semplice, come un albero./ Ancora meno,/ come un’asse». «Non ci sono – Gli uccelli non ci sono,/ si sono nascosti nel mio cuore./ Oggi sono nido»; «Sogno – Tutte le notti/ mentre dormo/ costruisco una casa»; «Il sole – Il sole/ s’infila/tra le tegole/ con questa ostinazione/ di guardare/ cosa c’è/ dentro le nostre casette./ E diventa pallido/ nel vedere/ che con la sua luce/ è più chiara/ la nostra povertà».

Sono versi concisi, essenziali, la cui apparente semplicità nasconde «un costante lavoro di restrizione e sottrazione. Operazioni necessarie per rendere la poesia un luogo d’incontro». Versi percorsi da una forte vitalità e da un profondo senso di libertà, la cui forza evocativa deriva anche dall’«intenso utilizzo dell’onomatopea che, secondo il poeta, è un linguaggio che non raggiunge i sensi, ma direttamente lo spirito». Con un invito a non dimenticare, a conservare memoria delle sofferenze passate, nella speranza di un futuro diverso.

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