La Cina a Firenze
Sempre attento ai fermenti della scena contemporanea, e alla danza in particolare, di aree geografiche extraeuropee, il festival fiorentino Fabbrica Europa ha allargato lo sguardo di questa edizione alla Cina con un focus – curato da Fabrizio Massini dal titolo “corpo-ideologia-contemporaneità” – su 5 coreografi emergenti. Sfatando l’immagine di una Cina esotica, lontana nel tempo e nello spazio, difficile da conciliare con la nostra idea (italiana, europea) di “contemporaneità”, Massini sottolinea quanto «dietro l’immagine bidimensionale riproposta incessantemente dai media, ci sono non una ma tante Cine diverse. E la danza contemporanea rispecchia bene il dinamismo di questo Paese: una realtà in mutamento, sfaccettata, in cui tradizione e sperimentazione coesistono e dialogano in modo complesso». Noi osservatori occidentali non possiamo fare altro che cercare di guardare senza i nostri filtri, e prendere atto di linguaggi diversi tutti da scoprire. Difficile quindi comparare i brevi lavori visti con quanto solitamente guardiamo, analizziamo e sappiamo di danza contemporanea. I nostri parametri di giudizio, in questo caso sugli artisti cinesi, si fermano alla mera visione e all’emozione o meno che sono riusciti a comunicarci.
Il lavoro più interessante e coinvolgente, molto vicino alla performance-art, ci è parso I didn’t say anything, pièce firmata da Lian Guodong, coreografo indipendente di Pechino, e da Lei Yan, coreografa dello Hubei residente a Pechino e straordinaria danzatrice. È una denuncia, velata, del sistema di potere, della dittatura, della violenza subdola esercitata sulla massa e sui singoli attraverso la parola. Quella che udiamo, disturbata da un mixaggio elettronico, è la voce di Mussolini nell’atto di dichiarazione di guerra dell’Italia, e quella del popolo acclamante. Fa da tessuto sonoro alla performance di Lei Yan dalla fisicità estrema, potente, comunicativa, espressa nel suo corpo piegato a un’infinità di articolazioni, di contorsioni, di attraversamenti. Gattonando all’inverso, arcuata, cioè con l’addome all’insù, indossa ai piedi guantoni da boxe coi quali esegue dei movimenti battendo con forza a terra, alzando le gambe, aprendole e chiudendole come una forbice, roteando e strisciando, fino a che, nel silenzio improvviso, toglie guantoni e indossa pantaloni neri per sfilarseli nuovamente dopo sequenze che l’hanno vista procedere lungo tutto il perimetro della scena, e in mezzo, tremolante, strisciando di schiena, turbinando, sottoponendo il corpo a contorsioni. In questa riflessione sull’invalidità, sulla disarticolazione e sul riallineamento del corpo, che, agìto anche nel silenzio ne fa un atto di ribellione tacita, irrompe quale elemento di violenza e di potere una bottiglia di vetro spaccata a metà. Impugnata in mano diventa oggetto pericoloso che la donna rivolge verso se stessa avvicinandolo sul viso e su varie parti del corpo, e orientandolo verso l’esterno a difesa e attacco. Diventa arma, fallo in erezione, trofeo, fiaccola, che infine infrange violentemente a terra. Un lavoro, questo I didn’t say anything, che dice una condizione sociale ed esistenziale, ma, come da titolo, senza dire direttamente. Chi ha occhi per intendere intenda.
Deboli sul piano compositivo e di coinvolgimento ci son risultati le altre creazioni seppur interessanti sul piano dell’approccio. Con due brevi estratti da Pear Garden e Yong 2 la danzatrice e coreografa Tian Tian compie un percorso coreografico-archeologico reinterpretando posture e forme della danza tradizionale cinese per indicare una connessione con l’oggi. Mixando anche musica tradizionale e moderna, attinge da dipinti di epoca Han (202 A.C.) e da statuine della dinastia Tang le cui immagini scorrono inizialmente su uno schermo, focalizzando il dettaglio di una figura femminile, e successivamente di una scultura. Posizionandosi su quella postura costruisce la sua danza, volendo sollecitare lo spettatore a in un esercizio di immaginazione del passato in quanto “luogo esotico”. Yu Yanan , invece, prende spunto dal gioco del ping pong – sport nazionale in Cina – e dai ricordi della sua infanzia per una riflessione sul corpo come materiale malleabile, plasmato dalle tensioni ideologiche. Nella postura e nella tensione muscolare che ci mostra, usa anche la recitazione per avvalorare la sua tesi, ovvia, sostenendo che il corpo rappresentato dalle arti visive (scultura, pittura, ecc.) è una manifestazione, o incarnazione, dell’ideologia, e quindi nei monumenti eroici del realismo socialista, così come nella perfezione delle statue rinascimentali, il corpo è uno specchio che riflette lo spirito del tempo.
Nell’incantevole giardino dell’Istituto Agrario di Firenze, limitrofo al Parc, sede di Fabbrica Europa, si è svolta la performance itinerante Polli d’allevamento, restituzione pubblica di un laboratorio con un gruppo di danzatori fiorentini, condotto da Ho Qi Wo, in arte Er Gao, danzatore e coreografo indipendente di Canton, esponente di punta del teatro-danza cinese contemporaneo, attivo con progetti anche in Germania, Francia, Olanda e Norvegia. Il workshop è stato la continuazione del progetto video This is a chicken coop, lavoro del 2016 presentato in festival internazionali. Incentrata sul processo di modernizzazione/urbanizzazione selvaggia avvenuta in Cina negli ultimi 30 anni, con la migrazione della popolazione nei grandi centri urbani, l’indagine di Er Gao trae spunto dagli allevamenti intensivi, e, similmente, come le persone vengono ingozzate e stipate in spazi sempre più angusti, a ritmi sempre più veloci, e dove tutto è programmato (la città, quindi, vista come un moderno pollaio, e le persone come galline domestiche). Lo stesso metodo è applicato a danzatori e coreografi i quali durante il periodo di formazione vengono “rimpinzati” di capacità tecniche, nozioni teoriche ed estetiche in modo automatizzato, spesso senza capire il (o essere coinvolti sul) come e perché, o a cosa servono le pratiche assimilate. Il risultato dei 4 giorni di lavoro condotto dall’artista ha visto il pubblico muoversi itinerante in mezzo ai giovani performer continuamente inseguiti nei loro dislocamenti tra alberi, siepi e fontane, mimetizzati, svolazzanti o appollaiati in diversi spazi, assumendo pose e figurazioni di umani o di pennuti, in sequenze parlate, cantate e danzate, con la performance concludersi all’interno di una serra divenuta pollaio. E noi, da fuori, a spiare quei “pennuti” chioccianti, accovacciati come galline pronte a covare. Tutte ormai addomesticate.