La chiesa sulla taverna

Petrolio a Trastevere? Un bizzarro episodio alle origini della basilica mariana, gioiello di questo popolare quartiere romano
Mosaici di Santa Maria in Trastevere

C’è un fatto poco noto legato a Santa Maria in Trastevere, la basilica sorta nel IV secolo sul titulus (ovvero il luogo di riunione dei primi cristiani quando non esistevano chiese) detto di san Callisto, il diacono trasteverino divenuto poi papa e martire, e via via trasformata e arricchita lungo i secoli fino a diventare quel gioiello che attualmente essa è. Prima però di accennarvi, facciamoci abbagliare dalla bellezza dell’interno, lasciamo che lo sguardo vaghi dal maestoso colonnato delle navate (sono colonne provenienti dalle Terme di Caracalla) al sontuoso soffitto seicentesco sfavillante d’oro ideato dal Domenichino, dal magnifico pavimento cosmatesco ai mosaici medievali dell’arco trionfale e dell’abside, agli altri tesori d’arte e di fede delle sue cappelle, prima fra tutti l’Altemps, dove è custodita  un’antichissima icona mariana datata tra il VI e il  VII secolo: la  Madonna della Clemenza.

Soffermiamoci ora sulle opere musive, senza dubbio l’ornamento più affascinante e prezioso di questo tempio. Appartengono ad epoche diverse. Nel catino dell’abside, sul mosaico a fondo oro della metà del XII secolo, risaltano su un trono le figure di Gesù e Maria affiancate da una teoria di santi. La Madonna, abbigliata come una imperatrice bizantina, indica il Figlio che l’abbraccia con la destra. Entrambi recano pergamene con versetti, tratti dal Cantico dei Cantici, esaltanti l’amore dello Sposo e della Sposa. L’intera scena è intesa a esaltare la regalità di Maria, la sua funzione mediatrice. Nella fascia ai loro piedi, due gruppi di pecore (i cristiani) uscite da Gerusalemme e da Betlemme (la Chiesa dei circoncisi e quella delle genti) converge al centro, verso l’Agnello di Dio immolato per la salvezza del mondo. Più in basso ancora, sempre nell’emiciclo absidale e straripando nelle pareti accanto, si snodano altri meravigliosi mosaici, stavolta della fine del XIII secolo: opera di Pietro Cavallini, la cui arte influenzò lo stesso Giotto, illustrano episodi della vita di Maria. Solenni e al tempo stesso pieni di vita, si direbbero pitture, grazie agli effetti coloristici ottenuti dall’artista romano (e infatti le singole tessere sono composte di materiale non omogeneo, proprio per creare giochi di luci ed ombre tipici di un dipinto). In questo ciclo, a differenza della grandiosa scena dell’abside, è l’umanità di Maria colta nei vari episodi della sua vita terrena fino all’assunzione.

Ed ora soffermiamoci sulla scena che rappresenta la nascita di Gesù. Qui vediamo Maria adagiata nella grotta accanto a Gesù in fasce nella mangiatoia, vigilata dal bue e dall’asino. Giuseppe medita ai piedi della Vergine. In alto spicca la stella. Due angeli si piegano reverenti verso la Madre e il Bambino, mentre un terzo angelo annuncia la nascita del Salvatore a un pastore (ha in mano un cartiglio con la scritta «Nuntio vobis gaudium magnum»). Un altro pastore, ancora ignaro della notizia, suona un corno circondato da pecore, una capretta e un cane. Accanto scorre un ruscello. Sotto la grotta della Natività è raffigurato in miniatura un edificio dal tetto a due falde spioventi con torretta, dalla cui base sgorga un rivolo grigiastro che fluisce nel ruscello. Contrassegna questa costruzione la scritta, anch’essa in latino: “Taberna meritoria”. Di che si tratta?

Si è voluto qui ricordare un fenomeno accaduto a Roma nel 38 a. C. e tramandatoci da Eusebio di Cesarea, Dione Cassio e san Girolamo. Allora, al posto di questa basilica sorgeva una taberna meritoria, ossia una sorta di casa di riposo per soldati veterani in congedo (milites emeriti). Improvvisamente, dal pavimento di questa taberna scaturì una sorgente oleosa, tipo petrolio, che per un giorno e una notte senza interruzione andò a defluire nel Tevere. Il luogo esatto dove ciò accadde va cercato sul presbiterio, sotto l’altare contrassegnato dall’iscrizione: Fons olei, sorgente dell’olio.

Gli ebrei romani, numerosi nel Trastevere, interpretarono questo prodigio come un annuncio dell’avvento del Messia, la cui grazia si sarebbe estesa dovunque “a macchia d’olio”: non per niente la parola ebraica Messiah significa l’“Unto del Signore”. D’accordo anche la comunità cristiana, nata in parte da quella ebraica, ma con una differenza: il Messia era già venuto nella persona di Cristo. Molto tempo dopo, dall’imperatore Alessandro Severo (222-235) la taberna venne concessa ai cristiani, che la trasformarono in oratorio e luogo di riunione. Ed ecco il titulus Callixti di cui parlavo all’inizio, una domus ecclesiae che il papa Callisto I (217-222) dedicò alla Vergine, primo nucleo della futura basilica.

Per dirla tutta, c’è chi, invece di olio minerale causato da un fenomeno di natura vulcanica, parla di fuoriuscita di acqua inquinata e non potabile destinata a rifornire la naumachia che il primo imperatore, Ottaviano Augusto, aveva fatto realizzare in Trastevere per gli spettacoli di battaglie navali.

Lasciamo ad ognuno la sua opinione e salutiamo questa basilica, che nelle festività natalizie accoglie centinaia di senza fissa dimora per un pranzo fraterno offerto loro dalla Comunità di Sant’Egidio. Non senza dare un ultimo sguardo alle decorazioni della facciata: ancora mosaici, ancora Maria in trono, ma stavolta col Bambino e ai lati dieci vergini.

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