La centralità strategica di Trieste

Uno snodo decisivo del “Mediterraneo allargato” alle prese con gli equilibri geopolitici che determinano le scelte di politica industriale. Il caso esemplare della società finlandese Wärtsilä. Intervista a Carlo Tombola, analista di “The Weapon Watch – Osservatorio sulle armi nei porti europei e del Mediterraneo”
Trieste
Trieste, foto Pixabay

Trieste è decisamente una bella e affascinante città che riveste un ruolo decisivo per l’area del Mediterraneo allargato, un concetto strategico che la rivista Aspenia definisce «la regione ricompresa tra la linea Gibilterra-Golfo di Aden, il Medio oriente e la sponda Nord del Mediterraneo». Il “nostro mare” «con il raddoppio del canale di Suez è divenuto un medio-oceano, arteria di collegamento tra Indo-Pacifico e Atlantico dalla quale transita un terzo del commercio marittimo mondiale».

Si comprende perciò che questo territorio di confine sia strettamente interessato a ciò che accade nella guerra in Ucraina e ai rapporti dell’Occidente sotto guida statunitense con la Cina e la Russia.

Ne abbiamo parlato con Carlo Tombola, responsabile di “The Weapon Watch – Osservatorio sulle armi nei porti europei e del Mediterraneo”.

Perché Trieste è importante sul piano strategico?
Sarebbe facile e semplicistico insistere sull’importanza geopolitica di Trieste: il confine orientale, l’incrocio di tre civiltà (latina, germanica, slava), il porto rivolto verso i Balcani e il Levante, con un bacino di traffico esteso fino a Vienna, Praga e Varsavia, mentre è poco attrattivo per l’area veneta… Semmai, sulla città e il suo piccolo distretto funzionale sembra che a prevalere sia ancora il peso della storia novecentesca, che mantiene vivo l’autonomismo e anche le pulsioni xenofobe, acuite dal fatto che Trieste è uno dei terminali europei della “via balcanica” seguita dai migranti.

Concentriamoci sul porto. Che storia ha avuto recentemente?
Appena una decina di anni fa era in pieno declino, tenuto in piedi dal solo traffico petrolifero. L’arrivo di due manager preparati alla guida dell’autorità portuale ha però rilanciato i due scali giuliani (Trieste e Monfalcone), diversificato e potenziato le correnti di traffico e creato dal nulla un terminal crocieristico, registrando un record storico nei container (quasi 900.000 TEU, unità di misura in piedi, ndr, movimentati nel 2022), rafforzando i collegamenti ro-ro (cioè con traghetti, progettati per trasportare carichi su ruote come automobili, autocarri oppure vagoni ferroviari, ndr) con la Turchia e soprattutto ridando forza al traffico combinato su ferrovia, di cui in Italia sono poli primari La Spezia e proprio Trieste.

Una grande occasione per l’Italia?
Certo. Il rinnovato profilo portuale ha contribuito alla diversa proiezione internazionale del polo triestino, dove però si registrano anche fattori problematici.

Che tipo di problemi?
Ad esempio le rinfuse liquide (petrolifere, chimiche) sono sempre meno importanti e poi c’è una deindustrializzazione che sembra inarrestabile. Si pensi alla chiusura a Trieste della fabbrica Wärtsilä/Grandi Motori. La guerra, poi, ha reso incerto e costoso l’approvvigionamento di rottami ferrosi che prima provenivano dall’Ucraina e su cui si basava la siderurgia del Nordest italiano. Di fronte a tali ostacoli resta sempre molto forte la concorrenza dei porti sloveni e croati.

In che modo Trieste è stata interessata al progetto della Belt & Road Initiative, cioè della “Nuova via della seta cinese”?
Si deve alla stessa dirigenza dell’autorità portuale triestina l’inserimento dell’Italia nel progetto della “Nuova Via della Seta”, con cui la Cina intende rendere stabili le relazioni commerciali e le catene logistiche verso l’Europa e di cui Trieste si è candidata a essere il principale terminale adriatico, e dunque europeo. Il progetto avrebbe dato ancor maggior impulso alla centralità del porto nello sviluppo locale, attraendo nuovi terminalisti e operatori logistici.

Se ne parla come di un progetto ormai superato…
Infatti, ho usato il condizionale perché oggi questa occasione mi sembra che non sia più praticabile e che notevoli energie si siano messe in moto per indebolire la Nuova Via della Seta, che resta, fino ad oggi il più grande corridoio trasportistico del pianeta, sia in tonnellate che in valore.

Cosa ha ostacolato l’avvio del progetto?
Una prima battuta d’arresto c’è stata quando nel 2021 la nuova Piattaforma Logistica di Trieste (PLT) è stata acquisita da Hamburger Hafen und Logistik AG (HHLA, la società semipubblica che controlla il porto di Amburgo), che sconfisse l’offerta di China Merchants, il gruppo armatoriale emanazione del ministero dei Trasporti della Repubblica popolare cinese e tra i principali alfieri della Belt & Road Initiative di Pechino. La mossa “difensiva” dei tedeschi – presenti in Italia anche nell’Interporto di Bologna – diede il segnale che le pressioni su un ingresso cinese nel porto di Trieste erano forti, e che veti erano arrivati anche da Roma.

La guerra in Ucraina ha fatto il resto?
Dopo il febbraio 2022, con l’invasione russa dell’Ucraina, è divenuto chiaro che sono finiti tra gli “Stati canaglia” (rogue countries) non soltanto la Russia di Putin e la Bielorussia di Lukashenko, ma anche la Cina di Xi e che il neo-atlantismo di Biden e Stoltenberg ambiva a ridisegnare i rapporti di forza internazionali anche con gli alleati dell’Unione Europea, non solo attraverso le forniture di gas e petrolio. Lo stesso accordo firmato nel dicembre 2021 tra HHLA e Cosco, che prevede una partecipazione del 35% del colosso cinese nella gestione del terminal amburghese di Tolletort, non è ancora stato approvato dallo stato tedesco, anche se stracciare un contratto firmato può porre delicati problemi di legalità internazionale.

La filiera dei trasporti marittimi è legata a quella dell’industria delle armi?
A Trieste e in altri rilevanti porti italiani – cito solo Genova, La Spezia, Livorno, Napoli – il movimento di armamenti è comunque importante, e in crescita. La domanda di logistica per la difesa era in forte espansione già prima della guerra. Le aziende strategiche legate alle forniture militari hanno lavorato a pieno regime durante il lockdown. Così alla ripresa post-pandemia hanno potuto approfittare del credito facile e dei prezzi maggiorati dall’inflazione. Con il conflitto ucraino, per l’economia di guerra si sono spalancate prospettive allettanti che di certo i governi non intendono ostacolare.

Esistono reali prospettive per una reale riconversione economica dei nostri porti in campo civile?
Un test decisivo per le possibilità di rilancio della riconversione economica e produttiva in campo civile è la vertenza Wärtsilä. Il caso è scoppiato senza preavviso nel luglio 2022 con il licenziamento di circa 450 lavoratori del Delivery Centre Trieste (DCT) e della divisione Propulsion (sui 1200 che la multinazionale finlandese ha in Italia), comporta di fatto la chiusura della produzione di motori marini nello stabilimento di Bagnoli della Rosandra, comune di San Dorligo della Valle, con delocalizzazione delle linee industriali in Finlandia.

Che collegamento esiste con il ciclo produttivo delle altre industrie presenti sul territorio?
Teniamo presente che giusto 25 anni fa Wärtsilä aveva acquistato da Fincantieri lo stabilimento Grandi Motori Trieste, il più grande del settore in Europa. Oggi Fincantieri è uno dei maggiori clienti di Wärtsilä, da cui dipende per i propulsori marini, sia quelli destinati alle navi da crociera che alle unità militari. Esplicitamente esclusa la possibilità di un riacquisto da parte del gruppo cantieristico italiano («non abbiamo le licenze di produzione», ha affermato l’amministratore delegato di Fincantieri), lo stabilimento triestino – che occupa un’area di 300.000 m², di cui 100.000 coperti – è stato posto in vendita. La scommessa principale riguarda il mantenimento dei posti di lavoro, e la scelta in favore dell’economia civile e ambientale.

Chi la potrebbe rilevare salvando i posti di lavoro?
Nella lista dei possibili acquirenti dello stabilimento triestino si registra al momento l’interessamento dello startup bresciana H2 Energy (produzione di idrogeno per i trasporti, si dice con il sostegno del colosso giapponese Mitsubishi) e degli austriaci del Christof Group (costruzione di impianti industriali oil&gas, in particolare silos agricoli e cisterne per liquidi). Sembra che nel frattempo sia stata ritirata l’offerta di IMR Industries, gruppo operante nell’automotive con sede a Carate Brianza, mentre il gruppo tedesco Rheinmetall – leader nel settore degli armamenti pesanti, già presente in Italia anche con il marchio RWM – ha deciso di trattare direttamente con il Ministero delle imprese e del made in Italy.

Esistono, in questa aerea triestina, altri casi di possibile riconversione industriale?
Altri programmi di riconversione verso il civile di poli produttivi dell’area giuliana oggi impegnati nel militare potrebbero riguardare la business unit Leonardo di Ronchi dei Legionari (che produce droni), gli stabilimenti di Goriziane Group di Villesse (retrofitting di blindati e carri armati), le startup e i laboratori di ricerca raggruppati nel Science Park di Basovizza collegati all’Università di Trieste. Si tratta di scegliere.

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