La cecità dell’abitudine e l’effetto rana bollita

Recenti studi interdisciplinari mettono in evidenza la necessità di “guardare meglio”, cioè di mantenere una posizione divergente di fronte alla narrazione dominante.
Foto Pexels

Da quando i primi pionieri della psicologia, a metà ottocento, hanno iniziato l’esplorazione della nostra mente, molte conoscenze sono state acquisite. Tuttavia è un mondo talmente ampio che risulta ancora sconosciuto per molti aspetti, anche quelli che diamo per scontati.

È il caso dell’abitudine, quell’insieme di comportamenti che adottiamo in modo automatico, tanto da farci ignorare gli stimoli che ci arrivano dall’ambiente esterno.

Ci abituiamo tanto alle cose belle che a quelle brutte. Se diamo per scontate le prime, perdiamo presto il senso del loro valore ed il piacere di poterne disporre. Se ci abituiamo alle ultime, non saremo più incoraggiati a migliorare il mondo in cui viviamo, accettando fenomeni deplorevoli come la crudeltà, le ingiustizie, la corruzione, la cattiva informazione, per citarne alcuni.

Due studiosi, Tali Sharot, neuroscienziata, e Cass R. Sunstain, economista comportamentale (quello del “nudge”), hanno investigato il tema, attingendo a lavori di ricerca propri e altrui, offrendoci i risultati in un testo “Guardate meglio. Perché l’abitudine ci rende ciechi”, recentemente pubblicato da Raffello Cortina Editore.

Utilizzando un approccio interdisciplinare che include, oltre alla psicologia e le neuroscienze, la filosofia e l’economia, gli autori ci accompagnano nel viaggio evolutivo dell’uomo, spiegando i meccanismi di funzionamento del nostro cervello in rapporto con la realtà e le possibili strategie per gestire la cecità da abitudine.

Il punto di partenza è un esperimento svolto a Vienna nel 1804 in cui il medico svizzero Troxler, studiando la vista, scoprì che fissando un’immagine da vicino per un certo tempo essa sembra scomparire, salvo poi ricomparire quando si sposta lo sguardo. Questo lo portò a dedurre che il nostro cervello smette di rispondere quando le cose non cambiano.

È una questione di efficienza: anche le risorse cognitive sono scarse, pertanto abbiamo imparato a utilizzarle in modo mirato, concentrandoci principalmente sui cambiamenti che in vario modo percepiamo attraverso i nostri sensi. E questo ci consente di mappare le situazioni di rischio e quelle di sicurezza, e di adattare i nostri comportamenti al mutare dell’ambiente.

Ci sono tuttavia alcune “trappole mentali” nelle quali possiamo incorrere, soprattutto quando i cambiamenti sono graduali. Vediamo alcune.

Molti conoscono certamente l’effetto “rana bollita”: la rana inserita nella pentola con acqua fredda e poi gradualmente cotta con aumenti lenti di temperatura non salterà fuori. Sharot e Sunstain mostrano che questo effetto è applicabile a diversi contesti umani e spiega fenomeni tragici come l’avvento del Nazismo in Germania: le storie di gente comune della Germania fra il 1933 e 1945 raccontano del lento scivolare verso la tirannia, attraverso piccoli e graduali cambiamenti.

Si pensi allora al tema ambientale. I cambiamenti climatici graduali, a cui ci siamo pian piano abituati, ci hanno convinto che tutto fosse normale, illudendoci di poter procrastinare l’affrontamento e la ricerca di soluzioni.

Applicato al mondo dell’informazione l’effetto “rana bollita” assume diverse articolazioni. La prima è l’effetto della verità illusoria: tendiamo a credere ad affermazioni ripetute con frequenza, anche se sono false. La ripetizione crea un senso di familiarità: il nostro cervello rileva “l’ho già sentito” e tanto più se l’affermazione è semplice, sarà meno faticoso per il nostro cervello accettarla come vera. Siamo cioè esposti al “bias della verità”, una tendenza che ci porta a credere a tutto quanto ci viene detto!

Ecco perché siamo vulnerabili alle fake news, alle truffe, alla cattiva informazione. Imparare — e impegnarsi — a verificare le informazioni, le loro fonti, la loro affidabilità è una competenza di cui dobbiamo dotarci per gestire correttamente la nostra cittadinanza.

Infine, fra i molti temi e spunti offerti dal testo di  Sharot e Sunstain significativa è la relazione fra abitudine e ingiustizia.

Gli economisti Jon Elster e il Nobel Amartya Sen hanno definito il problema delle “preferenze adattive”, una variante economica della favola della volpe e dell’uva: se non posso avere una cosa, finisco per non desiderarla. Se poi il contesto sociale in cui vivo accetta supinamente una situazione per me non desiderabile, potrei spingermi a “falsificare le preferenze” non rivelando quello che effettivamente penso.

Queste due combinazioni — “preferenze adattive” e “falsificare le preferenze” — sono una pessima prospettiva per chi vive in situazioni di ingiustizia o le vuole rimuovere. Ma allora, non c’è speranza?

La buona notizia è che ognuno di noi ha soglie diverse di abitudine. Può bastare una sola persona — un divergente, come nel famoso film — che inizi ad esprimere il dissenso, ad agire controcorrente, per mettere in modo prima quelle persone  più simili – in sensibilità o interessi –, e poi le altre, con un meccanismo di “cascata sociale” che potrà portare ad un ampio movimento di cambiamento.

“Guardare meglio” è, allora, un invito a superare la cecità dell’abitudine rendendoci consapevoli di quanto di positivo c’è nella nostra vita e di quegli aspetti, personali e sociali, che esigono un cambiamento, un altro punto di osservazione, iniziando, come ci incoraggiano gli autori, col metterci nei panni degli altri.

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