La catena di morte di Marco Prato
È stato uno dei delitti più efferati accaduti a Roma nell’ultimo decennio, quello accaduto al Collatino nel marzo 2016. Luca Varani era stato ucciso dagli “amici” Marco Prato e Manuel Foffo nel corso di una serata folle tra droga, alcol, sesso e chissà cosa d’altro. Prato era noto per essere un animatore della movida gay della capitale, e gli altri due erano egualmente dediti allo sballo sistematico. Prato si è ammazzato verso l’una di notte, chiudendo il capo in un sacchetto di plastica riempito del gas delle bombolette in dotazione ai detenuti per scaldare le vivande in cella. Fin qui la cronaca. «Se l’è meritato… uno in meno da mantenere in carcere… chi semina vento raccoglie tempesta… un uomo di morte che meritava solo la morte…», alcuni dei commenti ascoltati ieri alla radio o alla fermata della metro. Ho pure udito qualche moto di pietà: «Un morto è sempre un morto… non è possibile lasciare del gas in mano ai detenuti… come riuscire a rompere la catena della violenza?».
Appunto la catena da recidere. Per evitare che, anello dopo anello, non s’interrompa la serie di atti inconsulti determinati dalla violenza e soprattutto dal nonsenso. Marco Prato, come ha detto una psicologa a Regina Coeli, dove era stato incarcerato, aveva intrapreso un cammino di riabilitazione «rendendosi utile agli altri detenuti». Ciò sembrava aver ridato un minimo di senso a un’esistenza di sballi, bravate, eccessi sempre più eccessivi. Poi non si sa perché ha chiesto il trasferimento a Velletri, ed è ripiombato nel nonsenso. Fino al suicidio. Sul trasferimento è in corso una doverosa indagine del ministero. Luca e Marco (ma anche Manuel, già condannato a 30 anni per direttissima) c’insegnano proprio questo: la violenza e il nonsenso possono essere sconfitti solo con la recisione della catena di insignificanza. Le due lame delle cesoie sono da una parte l’accorgersi che al mondo c’è altra gente che soffre. Dall’altra, che c’è gente che riesce a rendersi utile.