La Catalogna e la voglia di indipendenza dalla Spagna
Delle sei forze politiche che sono riuscite a far eleggere propri rappresentanti al Parlamento della Catalogna, il partito popolare di centrodestra che ora governa in Spagna con la maggioranza assoluta ha raggiunto solo il quinto posto, cioè l'8,5 per cento dei voti. Basta considerare questa cifra, chiaramente indicativa, per capire come la Catalogna abbia delle caratterische sociopolitiche molto differenti dalle altre regioni dello Stato spagnolo.
Anche la dichiarazione del leader di Podemos, Pablo Iglesias, è un indicatore della forta e caratteristica personalità del popolo catalano: "Quando vado a fare campagna elettorale in Catalogna – ha affermato – mi sento uno straniero”. La cultura, la lingua, la storia, un tessuto sociale ed economico particolari, danno a questa regione una identità simile a quella di una nazione, che proprio per questo chiede il riconoscimento e vuole trovare un suo posto in Europa, dentro o fuori dalla Spagna. Non è un riconoscimento facile a farsi, ma la questione dovrà essere affrontata quanto prima se non si vuole mettere in pericolo la buona convivenza sociale. Ma analizziamo cosa è successo elle elezioni amministrative catalane (le regioni in Spagna sono organizzate in “Autonomie” o “Regione autonoma”. Ecco perché queste elezioni sono qualcosa di più delle solite votazioni regionali delle Autonomie).
Per prima cosa, bisogna mettere in rilievo la risposta del popolo catalano di fronte ai continui scontri col governo spagnolo registrati in questi ultimi anni. La gente non ha risposto con violenza, né appellandosi ai propri diritti né con manovre politiche e neppure con intrecci giuridici. Ha invece scelto di dare una risposta unitaria e assolutamente democratica. Con senso civico esemplare la popolazione si è recata alle urne, facendo registrare una partecipazione superiore al 77 per cento. Questo elemento trasforma le elezioni di domenica scorsa nella radiografia più esatta mai fatta al popolo catalano. Inoltre, fa capire che il futuro del paese interessa tutti: a chi è nato in Catalogna e a quanti provengono da altri territori dello stato spagnolo. Infine, smentisce la visione di una Catalogna frammentata e rinforza invece l'idea che si ha della coesione di questo popolo.
È stato un film aspro, quello della campagna elettorale. Una sceneggiatura la cui trama evidenzia la forza delle strutture dello Stato spagnolo, che si sono opposte ad ogni tipo di manifestazione di volontà di indipendenza da parte della popolazione della Catalogna. Il contrasto più evidente è emerso nell'impossibilità di promuovere un referendum chiaro, che permettesse di misurare democraticamente la volontà dei catalani. La risposta, però, è stata ancora una volta la civiltà, la fiducia gioiosa e il sorriso dei cittadini in tutte le occasioni, dall'enorme manifestazione dell’11 settembre a Barcellona alle elezioni, lo scorso 27 settembre.
Ed è per questo che le elezioni sono state lette come un plebiscito, vista l’impossibilità di realizzare un referendum vero e proprio. Ma, certamente, non è la stessa cosa. Fare il conteggio di queste elezioni non è semplice, perché non è stata posta nessuna domanda, perché non tutti i partiti politici hanno preso posizione “per” o “contro” l'indipendenza e anche perché ci sono più di 170 mila catalani che risiedono fuori della Catalogna e che non hanno potuto votare, soprattutto per mancanza di collaborazione da parte del governo spagnolo.
Se si leggono i risultati dal punto di vista del numero dei voti, ci sono due gruppi (la coalizione Junts pel Sì e la CUP) chiaramente posizionati a favore dell’indipendenza della Catalogna, che insieme hanno ottenuto il 47,76 per cento dei voti, mentre i tre partiti nettamente contrari all’indipendenza (Ciutadans –che ha registrato uno spettacolare aumento di voti, PP e PSC) hanno raggiunto il 39,14 per cento. Rimane poi l’8,93 per cento dei voti, ottenuti dalla coalizione Catalunya sí que es pot, che sostiene il “diritto a decidere”, senza tuttavia dare priorità ad un processo d’indipendenza.
Il fatto è che lo scopo delle elezioni era eleggere i deputati che comporranno il prossimo Parlamento della Catalogna. In questo senso, le forze indipendentiste hanno ottenuto una chiara maggioranza assoluta, giacché la somma dei seggi della coalizione Junts pel Sí (62) e della CUP (10) è di 72 (53,3 per cento) sui 135 seggi che formano l’emiciclo. I partiti che chiaramente si oppongono all’indipendenza hanno ottenuto, sommati, 52 seggi (Ciutadans (25), PSC (16) e PP (11), allorché Catalunya sí que es pot, conta 11 seggi. Certamente è evidente che questi blocchi non sono omogenei e che ci vorrà molto dialogo a tutti i livelli. Nel loro insieme, però, i risultati mostrano la chiara volontà del popolo di Catalogna. Una volontà a cui, adesso, i neoeletti dovranno dare delle risposte.
A questo punto è possibile formulare due considerazioni. Innanzi tutto, c'è l’assoluta necessità di impostare un nuovo tipo di rapporto tra la Catalogna e la Spagna. Poi, sembra indubbia la volontà di realizzare questo cambiamento scommettendo su delle politiche più egualitarie, più giuste, più condivise.
Le sfide che si prospettano in Catalogna, da oggi in poi, richiedono un grande rispetto della sua caratteristica pluralità sociale, un grande lavoro partecipativo e di collaborazione col ricco tessuto associativo catalano – uno dei suoi tratti intrinseci più importanti -, una grande generosità e sensibilità sociale per porre attenzione e occuparsi anzittutto delle necessità dei più deboli, di quelli colpiti dalla crisi, ed infine, una capacità di dialogo illimitata. Dialogo tra le diverse forze che ora configurano l’arco parlamentare, e, per forza, anche un dialogo col governo spagnolo. I primi tentativi, in questo ultimo senso, non sono incoraggianti, ma la politica deve essere messa al servizio dei cittadini, e non al rovescio. Si avvicinano le elezioni generali in Spagna, a dicembre, cosa che rende ogni dialogo ancor più complesso. Il muro dell’incomprensione sarà difficile da abbattere, ma dovrà cadere, per la difesa della politica e soprattutto per rispetto a chi ha, di fatto, la piena sovranità: il popolo.