La carità è anche politica?
In non poche librerie è apparso, in questi giorni, un insolito e per certi versi “scomodo” libro, dal titolo La grammatica della carità – dall’assistenza alla condivisione nel pensiero di Giuseppe Pasini (Salvatore Ferdinandi, pp. 395, edizioni Edb). Innanzitutto, è doveroso e intellettualmente onesto precisare che trattasi di una puntuale e rigorosa memoria storica sul pensiero, sulla testimonianza solidale e sulla presenza concreta della Caritas italiana, in Italia e nel mondo. Una memoria storica filtrata attraverso l’acuta e graffiante intelligenza di scritti, interventi e prese di posizione dell’oggi ottantenne mons. Giuseppe Pasini – peraltro cofondatore con mons. Giovanni Nervo di questo stesso organismo e per dieci anni “bacchettato” direttore nazionale. Caritas italiana, da molti è stata spesso ritenuta una scomoda “punta di diamante” della Chiesa cattolica, che ha sempre coltivato e perseguito il principio di “fare strada ai poveri senza farsi strada”. E ciò, denunciando e fronteggiando la mala politica, facendosi voce e dando voce ai dimenticati, alle persone deboli, a coloro che non hanno tessere da esibire o voti da portare a padrini o sciacalli, predoni o prestigiatori di turno, a caccia di narcisistica notorietà, di poltrone da occupare o di affari da gestire.
In secondo luogo, è un libro che, al primo impatto e fermandosi al solo titolo, potrebbe apparire ingenuo o astratto, giustamente rivolto a credenti, cattolici o ecclesiastici che dir si voglia (sacerdoti, religiosi e religiose, laici, teologi, vescovi e cardinali compresi). In realtà, scorrendo con attenzione i vari capitoli, legati insieme dalla certosina abilità del curatore don Salvatore Ferdinandi, il libro si sofferma e affronta questioni e problemi di scottante attualità socio-culturale e politica, con ricadute che investono il presente e il futuro del nostro Paese, che riguardano e interrogano anche coloro che poco si interessano di cose ecclesiatiche o si professano non credenti, diversamente credenti e agnostici.
Ed è un libro insolito e scomodo, soprattutto se messo a confronto con il clima temporalesco e gelido che attraversa i vuoti proclami, le accuse reciproche, le promesse salottiere e l’insopportabile cinismo delle schermaglie politiche di gran parte dell’attuale campagna elettorale nel nostro Paese. Con buona pace di poveri e frastornati cittadini e cittadine che non sanno più che pesci prendere e come arrivare a fine mese; con il disagio arrancante degli oltre otto milioni di poveri al limite della sopravvivenza; con buona pace dei milioni di giovani e donne stoppati o espulsi dal mondo del lavoro; con la rabbia e l’indignazione di esodati e disoccupati alla deriva; con la preoccupazione di anziani, malati, handicappati abbandonati a se stessi; con la disarmante incredulità di immigrati (che lavorano e pagano le tasse!) additati come invasori e delinquenti. E chi più ne ha, più ne metta.
In sintesi, si potrebbe dire che trattasi di un contributo di riflessione e socio-politico che si muove e spazia su due fronti: quello più strettamente “ecclesiale” – con spunti anche autocritici – muovendosi in sintonia con il Magistero sociale della Chiesa; e, più recentemente, con quanto affermato da Benedetto XVI nel motu proprio “Servizio della carità” (11 novembre 2012), dove nel proemio si legge: «Le tante organizzazioni cattoliche non devono limitarsi ad una mera raccolta o distribuzione di fondi, ma devono sempre avere una speciale attenzione per la persona che è nel bisogno; e svolgere una preziosa funzione pedagogica nella comunità cristiana, favorendo l’educazione alla condivisione, al rispetto e all’amore secondo la logica del Vangelo di Cristo».
E sul fronte della realtà sociale e politica, in fedeltà alla Costituzione, dove la parola “carità” non finisce per essere associata ad elemosina, concessione di favori o cessione di cose o di beni materiali, ma diventa anche “politica”, assumendo le forme e il volto della condivisione, della giustizia e dell’equità sociale, della solidarietà e del perseguimento del bene comune. E ciò richiamando all'adempimento costituzionale dei «doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» (art. 2); e nel «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (art. 3).
Una “grammatica” di base, quindi, a cui la nostra classe politica potrebbe e dovrebbe attingere, nell’atto di stendere o proporre un vero e concreto “programma”, da sottoporre all’approvazione e al voto degli elettori, credenti e non, agnostici o diversamente credenti, ma tutti e personalmente consapevoli e responsabili che la vera politica non è quella delle false promesse non mantenute ma quella che «fa strada ai poveri senza farsi strada».
(Nella foto, un operatore della Caritas distribuisce dolci)