La capacità di solitudine
Pur in mezzo a frenetiche attività il sacerdote sperimenta la solitudine. Intervista a Don Massimo Camisasca.
La capacità di solitudine è una delle grandi sfide dell’età contemporanea perché riguarda tutti. Diceva Igino Giordani che «ci si può sentire soli anche in mezzo alla folla di uno stadio». E la solitudine esiste per tutti perché «è il fondo ultimo della condizione umana». Riguarda le famiglie perché come scrive lo psicologo Willy Pasini: «Si può vivere bene accanto a un’altra persona soltanto se si è diventati un “intero”». Ed essere interi significa essere una persona già completa in sé, autonoma.
Se vale per tutti, vale anche per chi ha scelto una via di consacrazione a Dio, sia essa laica o religiosa, o la via del sacerdozio. Come la solitudine da un lato è presupposto di ogni rapporto che voglia essere veramente gratuito, dall’altro può diventare negativa se non si riempie di comunione. Sfida per tutti, e non ultimo il prete, nel suo essere senza una vita d’intimità affettiva, nel vivere spesso da solo in una canonica, nell’affrontare le difficoltà della vita, le prove spirituali e la sua missione da compiere.
E, se non vissuta positivamente, la solitudine provoca delle sofferenze che feriscono l’animo umano rendendolo vulnerabile e fragile. Lo apre a fughe, tentazioni, compensazioni, iperattivismo, egocentrismo.
Eppure l’esperienza della grande maggioranza dei preti ci dice che la solitudine può diventare risorsa e serbatoio di fecondità che si riempie d’unione con Dio e comunione con gli altri. E che apre alla costruzione della comunità cristiana.
Don Massimo Camisasca, superiore della Fraternità San Carlo, nel suo ultimo libro, Padre, edito dalla San Paolo, rilegge 25 anni di esperienza di educazione dei giovani al sacerdozio e di guida di comunità missionarie nel mondo. Lo abbiamo intervistato.
Quali sono le radici profonde della solitudine dei sacerdoti?
«Ci sono radici lontane nella formazione individualistica e ci sono radici più attuali legate alla complessità dei problemi che un sacerdote deve affrontare. Penso che dobbiamo aiutare la Chiesa a far sorgere delle vere fraternità sacerdotali. Un altro problema è che i vescovi sono spesso molto occupati a scrivere documenti, testi, lettere pastorali, a presenziare riunioni e convegni. Nel frattempo la burocrazia cresce e vengono meno i rapporti umani diretti del vescovo con i suoi sacerdoti. Credo fortemente che il vescovo debba tornare a vivere con i suoi sacerdoti, come faceva Agostino, almeno con alcuni di loro, e passare un tempo significativo del suo anno di lavoro anche con i seminaristi».
Che posto dovrebbe avere la comunione e la fraternità nella vita dei sacerdoti nei prossimi decenni?
«Si è parlato molto di comunione dopo il Concilio. Faccio parte di un movimento come Comunione e liberazione, e sono profondamente convinto che dentro l’esperienza della comunione ci sia l’esperienza di tutto il cristianesimo, di tutto ciò che Cristo abbia portato per ogni uomo sia credente sia non credente. Nella comunione c’è qualcosa di universale. Non è la parola di questo tempo, è la parola di sempre a cui ogni uomo è chiamato. Le due parole “fraternità” e “comunione” sono analoghe anche se esprimono sfumature diverse. La comunione esprime la partecipazione profonda dell’uomo alla vita di Dio attraverso il dono di sé che Dio fa all’uomo, la fraternità esprime l’essere figli dell’unico Padre e anche il valore sacramentale della presenza del fratello che è realmente un sacramento privilegiato di Cristo che Dio pone al mio fianco per aiutarmi a camminare verso di lui».
Esiste un antidoto alla solitudine?
«Dio non ci vuole soli. Ci indica le strade per uscire dalla solitudine. La via fondamentale la si può seguire se sappiamo nutrirci continuamente del rapporto con Dio. Usciamo dalla solitudine quando impariamo a pregare, studiare, riflettere, giocare, fare sport, coltivare amicizie. Quando non viviamo ripiegati su noi stessi e moriamo dentro le false compagnie della televisione e delle tecnologie, ma quando, al limite, ci serviamo anche di esse per andare verso Dio e la nostra felicità».
In che modo i carismi possono aiutare la vita dei sacerdoti?
«È dai carismi che vengono le novità, e solo dal rinnovamento laicale verrà il rinnovamento della vita sacerdotale».
Perché ha intitolato questo libro “Padre” ?
«Questo libro è, in fondo, un’autobiografia ed è la comunicazione del succo della mia esperienza. I sacerdoti, sia religiosi che diocesani, sono chiamati con questo appellativo: padre. Se è visto nella giusta luce, e in tutta umiltà, questo termine padre indica la realtà vera del sacerdote, chiamato ad essere padre dei piccoli, dei poveri, degli umiliati, a mo’ di Dio che è Padre. È anche un grande problema nella società dove assistiamo alla crisi della figura paterna e anche i laici possono riscoprire la loro paternità vedendola nei preti».
È dedicato a due sacerdoti della Fraternità San Carlo?
«L’ho dedicato a due miei collaboratori perché sono le persone che mi sono state più vicine. Nella Chiesa, del resto, non si è mai responsabili da soli davanti a Dio, si è sempre corresponsabili con altri e questo è un metodo, una profezia, un aiuto. È un metodo perché la guida di una comunità è sempre la testimonianza di una comunione vissuta. È una profezia perché è ciò che ci attende, la gioia di un’amicizia perenne. È un aiuto per trovare nell’amicizia vera un appoggio per la vita».
Nell’introduzione mons. Bruges parla di riforma della vita sacerdotale…
«Vista nella giusta dimensione questa parola può essere usata, vuol dire dare una forma nuova.
Nel cristianesimo riforma vuol dire, quindi, ritrovare ad ogni tornante della storia la forma autentica della vita di Gesù con gli apostoli. La storia, però, mette molta polvere nelle vicende della Chiesa, e questa vita originaria deve essere sempre ricercata per riconformarci a Cristo».
C’è il rischio, a volte, che l’ essere preti diventi un mestiere o una carriera. Avverte questo rischio?
«Lo avverto. Nel silenzio del mattino, dedicato alla meditazione, trascorro più di un’ora nella preghiera. Ultimamente mi sono rivolto ai grandi testi dei padri: La regola pastorale di Gregorio Magno, il Dialogo sul sacerdozio di Giovanni Crisostomo, il De considerazione di San Bernardo. Ed ho visto, anche se non è stata una scoperta assoluta, ma l’ho toccato di nuovo con mano che il problema del carrierismo ha assillato la Chiesa sin dall’inizio. E, d’altra parte, lo vediamo già nei Vangeli: i due fratelli Giacomo e Giovanni, fomentati dalla madre, spingono per diventare “ministro degli esteri e dell’interno” del governo di Gesù. Il carrierismo è nel cuore dell’uomo, è il desiderio di emergere e nasce dall’istanza giusta di poter amare e essere amati, ma esprime una determinazione storica sbagliata, confonde l’amore con il potere. Ora oggi questo è uno dei pericoli, tra i più gravi, soprattutto ai livelli alti della Chiesa. Il carrierismo determina un continuo ribollire dell’animo, un insoddisfazione ed una ricerca del bene, dell’appagamento, della felicità su strade che non conducono né all’appagamento, né al bene, né alla felicità.
Quindi nasce da una povertà di compimento affettivo e penso che tutti noi che abbiamo a cuore la vita della Chiesa dobbiamo aiutare le persone in questo senso, perché non c’è carriera che possa sostituirsi alla pienezza dell’amore».
Si ha l’impressione, in alcuni sacerdoti, di uno sviluppo dell’ego abbastanza pronunciato. Come lo spiega?
«La grande decisione della vita è decidere se si è Dio o se non lo si è. La grande tentazione, come quella di Adamo ed Eva, è pensare di essere Dio. Non nel senso che si nega l’esistenza di Dio , ma che ci si sostituisce a Lui. Dio diventa irreale, lontano, immaginato e si pensa di essere noi il criterio del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto, mentre alla fine non si sa giudicare, né leggere ciò che accade. Allora sono gli stessi avvenimenti dell’esistenza, esaltanti o drammatici, a riportarci alla purità di cuore, alla considerazione che noi non siamo Dio e che, quindi, dobbiamo entrare nell’azione, nella mentalità di un altro, nell’opera di un altro che dobbiamo scoprire, amare e godere. La conversione del proprio io è la strada fondamentale della felicità dell’uomo».
In 25 anni di esperienza quali sono secondo lei gli ostacoli principali che un sacerdote può incontrare per raggiungere una piena maturità spirituale e umana?
«Gli ostacoli sono sia esteriori che interiori. Quando un sacerdote non prega vuol dire che sta perdendo le radici della propria vita, che non è più alimentato e non sa più trovare le parole per leggere ciò che accade, per aiutare le persone. Mi fa paura un sacerdote che si perde nelle attività, che non ha amici, che non studia, che vive come abitudine la celebrazione dei sacramenti. Penso che se chiediamo a Dio la grazia di pregare lui ci insegnerà, se gli chiediamo la grazia di non abituarci a lui, lui ci darà questo dono. Se noi chiediamo a Dio la grazia di persone che ci siano vicine, degli amici, lui ce li concederà. Ci sono poi, indubbiamente, dei periodi della vita in cui Dio stesso ci lascia nell’aridità, nella solitudine, ma questi periodi sono funzionali ad un risveglio».
Che tipo di esperienza di comunione fate nella Fraternità San Carlo?
«Spero che ciascun sacerdote, o molti, possano ritrovarsi in questo libro. Non voglio essere portatore di niente di specifico, vorrei dire quello che mi sembra essere il cuore della vita cristiana e della vita sacerdotale. Nel mondo abbiamo formato case dove i sacerdoti vivono in comune, ci sono anche sacerdoti soli, ma normalmente sono 3 o 4 o più. Alcuni hanno compiti diversi, altri sono tutti impegnati nella stessa parrocchia o nella stessa università. Hanno momenti di preghiera comune ogni giorno, un incontro settimanale in cui giudicare assieme la propria vita, una giornata al mese per vivere momenti di svago e di conversazione per poter essere aiutati. Ma non basta vivere assieme, ci vuole un lungo cammino. Alcuni non si sentono aiutati dalla vita insieme, e dobbiamo prevedere anche questo, perché la vita in comune non si può imporre e bisogna prevedere persone che preferiscono vivere da sole».
Se non basta neanche la preghiera in comune, cos’è che rende famiglia una comunità sacerdotale?
«Ciò che fa famiglia, per me, è la scoperta che l’altro è realmente un segno di Dio. Al di là del fatto che mi sia simpatico o antipatico, che lo senta vicino o lontano, mi è stato posto accanto per riempire la mia vita. Devo dire che il sacerdote può trovare questa consolazione anche al di fuori della sua casa, con la parrocchia, altre amicizie, credo molto nell’amicizia».
Il senso di una comunità è Cristo presente nel dove due o più sono uniti nel suo nome?
«La comunità è possibile perché Cristo è Risorto, non è altro che una rifrazione della sua presenza, perciò la comunità è il luogo della conversione, altrimenti non regge, diventa una compagnia soffocante, oppure deviante».
Spesso i sacerdoti sono formati in seminari che non preparano a una vita di comunione…
«Rosmini diceva: “Soltanto uomini grandi creano altri uomini grandi”. Il problema fondamentale penso sia quello dei formatori. I seminari non hanno bisogno di grandi strumenti, sale, biblioteche. Invito i vescovi a scegliere come formatori i loro sacerdoti migliori. Se sceglieranno dei “padri”, questi sapranno generare dei “figli”, che a loro volta diventeranno padri. È tutto lì il segreto».