La bomba a orologeria 75 anni dopo Hiroshima
Abbiamo ricordato in questi giorni i 75 anni del bombardamento nucleare su Hiroshima e Nagasaki: quello che accadde alle 8.15 del 6 agosto 1945, quando venne sganciata su Hiroshima la bomba ad uranio arricchito che uccise sul colpo tra le 70 mila e 80 mila persone; e ciò che avvenne tre giorni dopo, il 9 agosto alle ore 11.02 del mattino, quando la seconda bomba colpì Nagasaki (il primo obiettivo era Kokura) e, secondo le stime più diffuse, vennero uccise sul colpo tra 35 mila e le 40 mila persone. Persone con una storia, una vita, una famiglia. Non semplici numeri da scrivere sui libri.
Un grande filosofo contemporaneo, Günther Anders (1902-1992) – in uno straordinario carteggio col pilota americano Claude Eatherly, colui che diede l’ok, da meteorologo, per il lancio della bomba su Hiroshima e che dopo la guerra ebbe gravi problemi psichici e sociali – ha mostrato come questi numeri (in tutto più di centomila persone uccise in un istante) non possano essere rappresentati dalla nostra coscienza e che questa incapacità di immaginare gli effetti disastrosi di ciò che produciamo, ci rende tutti, in qualche misura, degli alienati: «Ciò che ci dovrebbe mettere in agitazione oggi […] è che al paragone di ciò che sappiamo e che possiamo produrre, possiamo immaginare e sentire troppo poco. Che, nel sentire, siamo inferiori a noi stessi». (Lettera di Günthers a Eatherly in Ultima Vittima di Hiroshima. Il carteggio con Claude Eatherly il pilota della bomba atomica, Mimesis, Milano 2016, p. 279).
È il dramma della società della tecnica. Eppure, il pilota americano ha saputo affrontare questo suo enorme rimorso e chiedere perdono ai familiari delle vittime i quali lo hanno definito l’ultima vittima di Hiroshima, proprio come loro.
Appare chiaro come ricordare questo anniversario significhi non semplicemente guardare al passato, ma soprattutto entrare con consapevolezza nelle piaghe dell’attualità, quelle della società della tecnica e della proliferazione delle armi come folle e presunto strumento di stabilità – e quanto successo in Libano (che sia un incidente o un attentato) non fa che confermarlo drammaticamente.
In altre parole, ricordare Hiroshima e Nagasaki significa, da un lato, prendere dolorosa, ma per questo autentica, coscienza della bomba a orologeria su cui come umanità siamo seduti se continuiamo a pensare che per costruire la pace occorra armarsi di paura; dall’altro, vedere con piena libertà il monito che si staglia dalla Shoà nucleare e che grida “mai più!”. Come ha ricordato papa Francesco nella sua visita, il 24 novembre 2019, prima a Nagasaki e poi a Hiroshima, davanti a queste città «non saranno mai abbastanza i tentativi di alzare la voce contro la corsa agli armamenti. […] i soldi spesi e le fortune guadagnate per fabbricare, ammodernare, mantenere e vendere le armi, sempre più distruttive, sono un attentato continuo che grida al cielo». E ancora «un mondo in pace, libero da armi nucleari, è l’aspirazione di milioni di uomini e donne in ogni luogo. Trasformare questo ideale in realtà richiede la partecipazione di tutti: le persone, le comunità religiose, le società civili, gli Stati che possiedono armi nucleari e quelli che non le possiedono, i settori militari e privati e le organizzazioni internazionali».
Nella società della tecnica prevale una sorta di inerzia che tende ad addormentare la coscienza o a considerare inutile e utopica una mobilitazione per la pace. Come ha notato Anders tecnicizzazione dell’esistenza significa «che indirettamente e senza saperlo, come rotelle di una macchina, possiamo essere inseriti in azioni di cui non prevediamo gli effetti (proprio come il pilota americano) e che, se ne prevedessimo gli effetti, non potremmo approvare» (Anders, L’ultima vittima di Hiroshima, op. cit., p. 25).
Questo fatto – aggiunge il filosofo – trasforma la situazione morale di tutti noi perché possiamo diventare incolpevolmente colpevoli. Tuttavia Hiroshima e Nagasaki, così come la storia di Eatherly – che ha avuto il coraggio di diventare pazzo pur di affrontare l’orribile realtà in cui era immerso – ci ricordano quanto il mondo abbia bisogno di cittadini consapevoli; persone pronte a fare memoria, e dunque custodire quanto accaduto, non solo per non ripetere, ma soprattutto per rendere strutturalmente più difficili i gravi disastri del passato ed essere, quindi, più vigili nel presente. Fare questo non significa fare un di più rispetto all’essere semplici cittadini; al contrario, significa essere cittadini a tutti gli effetti e dunque contribuire a costruire democrazie compiute. Come scrive Anders, «democrazia significa, in fin dei conti, sentirsi responsabili non solo delle proprie azioni e della scrupolosa esecuzione del lavoro che ci è stato assegnato, ma anche delle azioni che riguardano tutti gli altri concittadini e tutti gli altri uomini».