La BOMBA e il volo della gru

Ci sono momenti nella storia che segnano un prima e un dopo in maniera inconfondibile. Avvenimenti che l’umanità non può lasciare da parte quando riflette sul proprio passato per capire meglio come affrontare il futuro. E a volte questi momenti si possono concentrare in un unico punto, come avvenne alle otto e sedici minuti del mattino di quel sei agosto del 1945 a Hiroshima, e tre giorni più tardi a Nagasaki, due minuti dopo le undici. Sulla prima città, il colonnello Paul Tibbets lasciava cadere dall’Enola Gay, l’aereo dell’esercito nordamericano che pilotava, il Little Boy, la prima bomba atomica utilizzata in azioni belliche, contenente sessanta chili di uranio-235. Sulla seconda, un suo collega, il maggiore Charles Sweeney, lanciava dal bombardiere Bocksar il Fat Man con i suoi otto chili di plutonio-239. Due sole esplosioni provocarono più di centocinquantamila morti all’istante, ma in poche settimane, per gli innumerevoli feriti, la cifra superò i duecentomila. Fino ad oggi, sono più di trecentomila le persone morte a causa di questi due attacchi atomici, e gli hibakusha – cioè le vittime delle radiazioni – ancora in vita sono duecentosettantamila in Giappone, senza contare i coreani e i cinesi che in quel periodo abitavano nelle città colpite e che tuttora ne subiscono le conseguenze. Hiroshima e Nagasaki si sono rimesse in piedi abbastanza velocemente: oggi più di un milione di abitanti nella prima città e un po’ di meno di mezzo milione nella seconda si considerano eredi di una esperienza che rappresenta una delle pagine più tristi del secolo XX. Pochi giorni dopo essere arrivato a Nagasaki, dove ho abitato per cinque anni, un’anziana mi diceva: Sono sopravvissuta soltanto io della famiglia, ed eravamo sette fratelli! . Di fatto, all’inizio di agosto c’erano stati degli attacchi aerei sporadici sul porto, e le famiglie che ne avevano avuta la possibilità avevano mandato in campagna i bambini: ecco perché quella signora è tra quanti adesso possono raccontarlo. Non è difficile, a Nagasaki, sentire storie simili, che fanno provare una stretta al cuore. E le strade, con fotografie dei luoghi così come si presentavano nei giorni successivi all’immane tragedia, ne danno testimonianza in molti angoli. Sorprendentemente, non c’è né odio né rancore. Vi ha contribuito, indubbiamente, la proverbiale rassegnazione orientale di fronte alla fatalità; ma a Nagasaki non è stato senz’altro indifferente il fatto che più del dieci per cento delle vittime erano cristiani. L’epicentro dell’esplosione, infatti, si trovò nel quartiere diUrakami, dove durante quasi tre secoli di feroce persecuzione anticristiana famiglie intere continuarono di nascosto a battezzare i figli e a trasmettere loro la fede degli antenati, e da dove dalla fine del secolo XIX, con la libertà religiosa riacquisita, incominciò la rinascita della chiesa in Giappone. Il gruppo scultoreo dell’Addolorata e di san Giovanni ai piedi della croce che si ergeva nel portico della cattedrale di Urakami, il maggiore tempio cristiano dell’Estremo Oriente, è fra le poche cose rimaste in piedi, simbolo oggi sia del pianto sulla città distrutta che della speranza che la fece risorgere. Takeshi Nagai, medico radiologo diventato cristiano da adulto, che prima di morire di leucemia nel 1951 scrisse diversi libri assai diffusi in Giappone, durante la prima messa funebre celebrata sulle rovine della chiesa disse ai presenti: Siamo grati, perché attraverso questo sacrificio la pace è stata ridata al mondo, e al Giappone la libertà religiosa. Dal 1947, ogni anno, il sei agosto, il sindaco di Hiroshima, fa una solenne dichiarazione per la pace. L’anno scorso, in quella ricorrenza, Tadatoshi Akiba, attualmente in carica, proponeva fino al sei agosto 2005 un anno di commemorazione e di azione per un mondo liberato dalle armi nucleari. L’organizza-zione Sindaci per la pace, promossa dal comune di Hiroshima e alla quale aderiscono 714 città di 110 paesi, tra le quali 38 città italiane, ha sostenuto l’iniziativa e nella Conferenza di revisione del trattato sulla non proliferazione delle armi nucleari, tenutasi lo scorso maggio a New York, ha proposto un piano di quindici anni per arrivare nel 2020, settantacinquesimo dei bombardamenti atomici, alla totale eliminazione delle armi nucleari in tutti gli arsenali del mondo. Questa campagna sta suscitando dovunque entusiasmo. Il Parlamento europeo ha approvato con grande maggioranza, l’anno scorso, unarisoluzione in favore di queste proposte ed il Consiglio dei sindaci degli Stati Uniti, che rappresenta 1.183 città nord-americane, ha ratificato all’unanimità una risoluzione simile. Il sindaco di Hiroshima, comunque, non esita a criticare duramente una certa politica nord-americana che, a suo avviso, ha fatto riprendere la ricerca per creare armi nucleari sempre più piccole e maneggevoli. I tempi della guerra fredda sono superati e la psicosi dell’olocausto atomico è stata sostituita dalla minaccia del terrorismo incontrollato, ma finché ci saranno armi atomiche sul nostro pianeta continueranno a risuonare attuali le parole pronunciate da Martin Luther King nella cattedrale nazionale di Washington una settimana prima del suo assassinio: Il mondo intero può precipitare nell’abisso dell’annichilimento, e il nostro habitat terreno trasformarsi in un inferno che neanche la mente di Dante avrebbe mai potuto immaginare . Hiroshima e Nagasaki non possono accettare di essere state sacrificate invano. Sadako Sasaki aveva due anni e viveva vicino al ponte di Misasa di Hiroshima sessant’anni fa. Quando ne aveva undici le fu diagnosticata una leucemia, la malattia della bomba atomica. La sua migliore amica raccontò che, secondo la leggenda, se avesse piegato con la carta mille gru di origami, si sarebbe adempiuto qualunque suo desiderio. Durante i quattordici mesi di degenza prima della morte, la bambina ne realizzò 644 con le ricette delle medicine e con qualsiasi carta che trovava, con la speranza di guarire. Le sue compagne di classe fecero le 356 mancanti. La sua statua con una gru d’oro nel Memoriale della Pace di Hiroshima suggerisce ad ognuno di noi di fare spiccare il volo del nostro impegno per la pace. LA PIOGGIA NERA Da tanti sopravvissuti l’esperienza della bomba atomica è stata definita al di là delle parole, e quindi necessità di fare silenzio.Viceversa l’urgenza, da parte di altri, di testimoniare al mondo una tale mostruosità, ha dato origine in Giappone addirittura ad un nuovo genere letterario – il genbaku bungaku – comprendente una miriade di opere sia dall’esclusivo intento documentario o socio-politico, sia di dichiarata finzione, e quindi con una prevalenza della finalità artistica. Appartiene a quest’ultima categoria il romanzo La pioggia nera di Ibuse Masuji che, acclamato come capolavoro in Giappone e all’estero fin dalla sua pubblicazione nel 1965, solo ultimamente è apparso in italiano per i tipi di Marsilio (pp. 408, euro 19,00). Nella sua lunga vita (1898-1993), lo scrittore ha trascorso a Hiroshima solo pochi anni, ma il mondo rurale del suo villaggio d’origine, a est di quella città, è stato la sua costante fonte d’ispirazione. Le sue storie narrano dei deboli, di contadini, di individui strappati alle loro radici da catastrofi causate da eventi naturali o dall’agire sconsiderato dell’uomo. Quando arriva a descrivere l’indescrivibile della tragedia atomica, di cui non è stato testimone diretto, Ibuse ha già elaborato i simboli che daranno vita e potenza alle sue immagini. Con La pioggia nera – orchestrato come un concatenarsi di diari di testimoni diversi, per tentare la visione d’insieme di una realtà altrimenti inafferrabile da parte di un unico osservatore – egli accetta la sfida più ardua della sua carriera e in questo romanzo, dove il linguaggio della poesia soltanto è capace di riempire il vuoto delle parole, tocca la vetta di un lungo itinerario artistico.

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