La Boemia di Dario Colombo
Durante una delle mie puntate nei dintorni di Trento, girando per le vie di Mattarello, frazione distesa sulle pendici della Marzola e della Vigolana, lo sguardo è attirato da una targa: «In ricordo dei 1300 abitanti di Mattarello e Valsorda sfollati in villaggi della Moravia dal maggio 1915 al novembre 1917».
Ignaro di quale fatto storico si tratti, dopo qualche ricerca su Internet scopro che nel 1915, alla vigilia dell’entrata in guerra dell’Italia nel Primo conflitto mondiale, le popolazioni trentine, venete e friulane dei territori di confine facenti parte dell’Impero austroungarico – e pertanto sospettate di parteggiare per l’Italia – subirono un esodo forzato su carri bestiame per poi essere distribuite, dopo un viaggio estenuante, in province dell’Impero lontane dal fronte: Bassa Austria, Moravia e soprattutto Boemia, l’attuale Repubblica Ceca. In quasi 100 mila, per lo più donne, anziani e bambini, di cui più di 70 mila dal Trentino, mentre gli uomini validi erano reclutati al fronte, dovettero abbandonare case, campi e animali, portando con sé solo un cucchiaio e una coperta, e tentare di ricostruirsi una vita in Paesi dove tutto era nuovo per loro: luoghi, clima, lingua, usi e costumi. Così per oltre tre anni. Quando i trattati di pace permisero loro di rientrare nelle proprie case, il ritorno non fu meno sofferto della partenza: trovarono soltanto devastazioni e razzie.
Quasi in parallelo a queste scarne notizie, la lettura di Boemia, il popolo scomparso –– un romanzo appena pubblicato dall’Editrice Minerva – mi proietta con forte coinvolgimento emotivo, come forse non avrebbe ottenuto un saggio storico, in una vicenda di cui non v’è traccia nei nostri libri di storia. A strapparla dall’oblio è stato Dario Colombo, giornalista metà lombardo e metà trentino, autore di numerosi libri, documentari, lavori teatrali e rievocazioni storiche sull’argomento.
Dedicato «alla nonna Carmela, che su quel treno è salita davvero», Boemia, primo volume di quella che sarà una trilogia, è la storia veridica (cambiati soltanto alcuni nomi di persone e paesi) di un gruppo di abitanti della Val di Ledro, che destinati a quella provincia, sotto la guida di una maestra e del loro parroco iniziarono un percorso d’integrazione che avrebbe visto stabilirsi forti legami amicali sfociati in qualche caso anche in matrimoni. Se tale percorso fu necessariamente lento e complesso, sbalordisce la rapidità con cui la maestra, coadiuvata da altre volenterose, riuscì a organizzare una scuola affinché i bambini esuli non perdessero l’anno scolastico.
Un altro episodio realmente accaduto del romanzo è l’escamotage ideato dal parroco (e sostenuto dalla maestra) per far rientrare dal fronte un certo numero di loro valligiani. Fu quando nel 1916 l’esercito austriaco esaurì le scorte di scarponi chiodati, indispensabili per condurre le operazioni belliche in montagna. Siccome a fornire i chiodi erano le fucine della Val di Ledro, il sacerdote chiese e ottenne il rientro degli operai dal fronte, compresi coloro che fece passare come tali e che con l’aiuto di quelli “veri” cooperarono a fornire ognuno, agli austriaci, i richiesti mille chiodi al giorno.
Dario Colombo risponde ad alcune domande:
Lei era già autore di alcuni testi storici riguardanti l’esodo delle popolazioni trentine. Da cosa è nata l’idea di raccontarlo anche in un romanzo?
«Principalmente dalle sollecitazioni di tanti amici e lettori che lungo gli anni mi chiedevano di trasformare così le mie conoscenze su quella vicenda derivanti dalla lettura di centinaia di lettere, diari, testimonianze verbali messe a disposizione da famiglie sia del Trentino che della Boemia: documenti accumulati nel tempo e già in gran parte utilizzati nel volume Boemia, l’esodo della valle di Ledro 1915-19».
Ma poiché certi drammi si ripetono ciclicamente, lo stimolo le sarà venuto anche dalle guerre e dagli esodi che si stanno consumando sotto i nostri occhi…
«Certamente. Vedere ad esempio, un anno fa, le donne ed i bambini ucraini che allo scoppio della guerra lasciavano le loro case con poco o nulla mi ha riportato immediatamente alla mente l’immagine di mia nonna e dei profughi trentini cent’anni prima».
Il romanzo offre molteplici spunti di riflessione. Intanto sull’assurdo di ogni guerra, che sconvolgendo la normalità della vita mette anche alla prova sentimenti e convinzioni. Penso alla maestra Cecilia, che promessa a Michele, combattente al fronte, suo malgrado rimane attratta dall’affascinante Pavel, figlio del barone Dubcek presso cui la giovane valligiana ha trovato ospitalità…
«Non solo questo, ho voluto ricordare che spesso è proprio in tempi di barbarie che l’essere umano riesce a dare prova di grande solidarietà verso i propri simili. L’esodo dei trentini della Val di Ledro è un esempio di quanto ciò sia vero e quanto l’amore per la vita vada oltre ogni distinzione di razza, lingua e nazionalità. Boemia è infatti anche la celebrazione di forti legami tra popoli diversi, che anticipano quella che sarebbe diventata, cinquant’anni più tardi, la futura Europa…».
…e anche dell’importanza, per sopravvivere, di rimanere comunità aperta ma consapevole delle proprie radici culturali. Cos’altro ha avuto a cuore di far venire in luce in questa storia?
«Il ruolo delle donne. Boemia è un romanzo “al femminile” perché da quell’esperienza uscì una figura nuova di donna, che dalla dimensione strettamente famigliare di prima della guerra passa a quella di figura moderna, emancipata, che l’esilio ha portato a lavorare nelle fabbriche, a rapportarsi con le autorità, a dialogare in un contesto sociale completamente diverso per lingua, usi e costumi».
Il romanzo esce nei 150 anni dalla morte di Alessandro Manzoni. In fondo anche il suo narra una odissea di umili…
«Lungi ovviamente dal voler fare paragoni improponibili, credo che se un nesso esiste sia quello della riscoperta di un filone del “vero” di manzoniana memoria, laddove il “vero” – e dunque la storia – è rappresentato dalle vicende di gente comune».
Ringrazio l’autore, con tanti auguri per i prossimi volumi della trilogia storica, nei quali – assicura – «ritroveremo i due protagonisti del primo romanzo, ma altri entreranno in scena. E cambieranno completamente gli scenari: Usa e Sud America, dove molti trentini emigrarono dopo la crisi economica del 1929».