La Biennale di Venezia. Il mondo a 360°

La Cinquantasettesima Esposizione Internazionale d'Arte-Biennale di Venezia si apre al mondo e ad ogni genere di ricerca artistica per poter essere enciclopedica e trasversale come accade ormai in ogni ambito culturale. Per questo la mostra tasta il polso della febbre dell'arte attraverso la scelta di circa 200 autori sparsi nel mondo: alcuni più storici, anche scomparsi, gli altri più o meno giovani.

Si prediligono le installazioni: da quelle luminose a quelle costituite da spazi vuoti da guardare o da attraversare, spazi magari labirintici ed estranianti, che dimostrano il potere travolgente dell’illusione, fino a quelle più fisiche, ingombranti e gigantesche, che possono essere una messinscena paradossale ma veritiera della condizione umana o l’iperbole di assunti magari estremizzati di un futuro possibile.

Altri mezzi scelti sono  il video o il film sul grande schermo, in modo marginale la pittura. Il materiale ospitato è inquadrato in sezioni: ai Giardini quella di “Artisti e Libri” e quella delle “Gioie e delle Paure”; all’Arsenale quella dello “Spazio Comune”, della “Terra”, delle “Tradizioni”, degli “Sciamani”, dei “Colori” e del “Dionisiaco”.

All’arsenale Anna Halprin, statunitense con il video “Planetary Dance”, ci mostra le sue coreografie di coinvolgimento del pubblico nel paesaggio: le coreografie privilegiano il rapporto con la natura, la creatività individuale e sociale e la danza come terapia. Charles Atlas, anche lui statunitense, proietta su uno schermo gigante 44 tramonti, 11 per volta e a lato appaiono le cifre dei minuti che il sole impiega per scomparire, al ritmo di una musica lenta e minacciosa che poi accelera. Dopodiché, al buio e nel silenzio, suonano le cornamuse ed un canto funge da sigla della fine del mondo.

Immagini e suoni inducono alla contemplazione della fantasmagoria astrofisica della natura ed alla riflessione sulla metafora trascendentale della luce e sulla sua necessità vitale ed esistenziale.

Ai giardini, tra i padiglioni nazionali, ci s’imbatte in quello russo con la straordinaria ridondante moltiplicazione di sagome bianche schierate come un esercito minaccioso, dalle forme geometriche più svariate e creative dei simboli del potere politico, della meccanizzazione, della tecnologia, della guerra, del consumo. Nell’opera di Grisha Bruskin, le sagome bianche, alludono alle strategie coercitive del controllo a tutti i livelli e al comportamento irrazionale delle masse. Qui l’impatto, insieme agli effetti di luce, sbalordisce e un po’ stordisce per la quantità degli elementi, ma l’operazione non va oltre la registrazione della realtà che l’uomo vive nella sua società. Nel padiglione centrale Hassan Sharif, degli Emirati Arabi, si prefigge uno scopo simile, con le sue decine di metri di scaffali ricolmi di mercanzie di cartapesta, che simulano la grande distribuzione commerciale e accusano l’eccessiva proliferazione del sistema consumistico, ma con le forme del tutto diverse, quelle pop; due autori, Bruskin e Sharif, cui mancano le ali per volare alto.

Rachel Rose, poi, statunitense anch’essa, ci fa assistere, su uno schermo gigante, all’animazione di una storia di un ibrido di cane nel mondo fantastico e magico di un paesaggio di rara suggestione estetica; Rose ci conduce nel nuovo dell’innocenza, della pace, della serenità, del sogno, della favola e ci fa assaporare un po’ di bellezza e di respiro; la bellezza della rappresentazione creativa della natura che si ispira al fascino del paesaggio reale ha, per chi sa, l’impronta dell’infinito.

La vastissima mostra ha spesso il sapore della kermesse; quanto detto può darne una minima idea attraverso i flash su qualche autore rappresentativo della maggior parte delle opere.

Si rinnova comunque il perenne interrogativo su quali siano gli obiettivi dell’arte e su cosa sia arte oggi e cosa non lo sia.

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