La Bibbia come scuola di fragilità

Intervista a Brunetto Salvarani, che ha appena pubblicato, per Laterza, Teologia per tempi incerti, in cui scrive che, nonostante i banchi delle chiese siano sempre più vuoti, l’ignoranza della Bibbia sta alla base dell’incapacità di capire chi siamo, dove stiamo andando e cosa ci stiamo a fare nel mondo.

Brunetto Salvarani ha appena pubblicato, per Laterza, un libro che s’intitola Teologia per tempi incerti, in cui scrive che, nonostante i banchi delle chiese siano sempre più vuoti, e la gente che ci si siede, se ci si siede, su quei banchi, sia sempre più anziana, per comprendere la cultura nella quale ci muoviamo, e dalla quale proveniamo, bisogna fare i conti con la Bibbia.

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La tesi che sta alla base del libro è che l’ignoranza della Bibbia sia alla base dell’incapacità di capire chi siamo, dove stiamo andando e cosa ci stiamo a fare nel mondo. E, a partire da questa tesi, Salvarani prova a leggerla la Bibbia, e a raccontarla, mescolando le storie di Giona, di Noè, di Giacobbe, del Qohelet e di Gesù alle nostre, mescolando l’antica sapienza scritturistica alla nostra, incerta, condizione esistenziale.

Mi sono rimasti impressi gli aggettivi che hai adoperato per raccontare Giona: fragile, stralunato, malinconico, egoista, frustrato. E lo hai accostato, tra gli altri, al Bartleby di Melville. Come mai?

Perché Giona è appunto così, assai distante dal modello di profeta che siamo abituati a trovare nella Bibbia! Nella Scrittura, secondo Elie Wiesel, non c’è nessuno che gli assomigli; nessuno che ebbe i suoi problemi, o le sue idee per risolverli. Goffo, svogliato e tutt’altro che baciato dalla fortuna, esemplare antieroe con la predilezione per il fallimento e la tragedia, e come rapito da una ricorrente pulsione di morte.

È di estrema rilevanza che il libro di Giona sia stato incluso nel canone biblico, ebraico e cristiano: il che significa che una religiosità così laica, conflittuale, critica, negatrice di tutta la tradizione, è legittimata come parola di Dio.

Nel capitolo dedicato a Noè, racconti la storia di Nimrod. Perché l’inizio del regno di Nimrod, oltre a essere l’inizio di Babele, è, anche, “l’origine di ogni totalitarismo”?

Il desiderio delle popolazioni di Babele non fu quello di un’unità che impedisse la dispersione, ma di un’uniformità che abolisse le singolarità. In questo senso, la costruzione di Babele rappresenta il tipico progetto totalitario, e dunque altericida. La logica che vi s’intendeva instaurare è quella del possesso, dell’avere, cui è sacrificato il piano dell’essere, la dignità dell’uomo. Che è, in fondo, la radice di ogni razzismo…

Nelle pagine su Giobbe, citando Etty Hillesum, scrivi che bisogna spingersi a comprendere che Dio va, paradossalmente, aiutato a sopravvivere. Cosa vuol dire?

Il linguaggio, evidentemente, è paradossale, come capita spesso nelle pagine bibliche. Vuol dire che Dio, nel racconto che ne fa la Bibbia, a ben vedere è fragile, fragile come ciascuno di noi, e si sforza di resistere al male – come facciamo noi – con soluzioni parziali. È fragile come Giobbe, e tuttavia non si sottrae al lato negativo della storia, preoccupato di salvarsi. Come chiunque altro si ribella, non si arrende e riprende, sempre di nuovo, la lotta per strappare al caos il mondo.

La Bibbia, per anni, è stata percepita come una raccolta di episodi edificanti. Ma la Bibbia, mi sembra di aver capito leggendo, non è questo. Cosa allora?

La Bibbia è un grande libro con il quale siamo chiamati a confrontarci, credenti o non credenti, laici o religiosi che siamo. I suoi personaggi si affannano e comunicano, s’innamorano e lavorano, combattono e piangono, mentono e tradiscono, uccidono e vengono uccisi, desiderano e sognano, mangiano e si divertono: sono, dunque, come gli uomini (e le donne) di ogni tempo e di ogni luogo, di ieri e di oggi, chiamati, se ci riescono, a umanizzarsi e a fare i conti con la nostra fragilità così come lo siamo noi.

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