La bellezza velata

A Napoli, Udine, Roma: inseguendo l’ideale di bellezza di un grande della scultura barocca: Antonio Corradini

 

La grande arte greco-romana ed etrusca ha sempre attribuito somma importanza al modo di disporre e rappresentare le vesti sulle forme umane. Basti pensare, nel campo della statuaria, alla celeberrima Nike di Samotracia del Louvre, investita da un vento che le modella sul corpo il leggero chitone, o, in quello della pittura, agli affreschi tombali di Tarquinia con scene di danzatori e danzatrici in trasparenti tuniche multicolori.

Per fermarci alla scultura, risale ad artisti come Fidia e Prassitele l’invenzione del “panneggio bagnato”, la resa cioè delle vesti aderenti ai corpi come se fossero intrise d’acqua, dando l’illusione della trasparenza: un modo per esaltare la bellezza della figura umana e al tempo stesso dar sfoggio delle capacità virtuosistiche dell’artista.

Questa antica e ammiratissima tecnica è stata portata da scultori dei secoli successivi, specialmente di epoca barocca, a livelli insuperati. E qui non può non venire in mente il nome di Giuseppe Sammartino, autore di quel Cristo velato della Cappella Sansevero senza una visita alla quale nessun itinerario turistico a Napoli, anche breve, sembra possibile.

Non molti sanno però che il bozzetto iniziale di questa scultura, la cui simulata trasparenza ha dato adito anche a leggende, è opera di un altro valente artista specializzato proprio in figure velate: Antonio Corradini. Nato a Este nel 1688, una carriera folgorante, una fama smisurata pari a quella del Tiepolo nel campo della pittura, opere sparse in tutta Europa, Corradini fu scultore ufficiale della Serenissima, poi scultore di corte in Austria ed ebbe commissioni papali a Roma. Infine venne chiamato a Napoli da Raimondo di Sangro, principe di Sansevero, come co-ideatore ed esecutore del progetto iconografico relativo all’arredo marmoreo della sua cappella gentilizia.

Quattro le statue eseguite per essa, tra cui l’allegoria della Pudicizia, dedicata alla madre del di Sangro: uno stupendo nudo femminile completamente ricoperto da un velo. Fu l’ultima sua opera compiuta in vita: in seguito alla morte avvenuta il 12 agosto 1752, restò infatti irrealizzato il Cristo velato, anch’esso commissionatogli dal principe. Corradini arrivò solo a farne il bozzetto in terracotta, ora esposto nel Museo della Certosa di San Martino a Napoli.

Esecutore del Cristo morto ricoperto da un sottilissimo velo fu invece il Sammartino con qualche variante rispetto al bozzetto originario. Egli gareggiò in maestria col defunto maestro, se addirittura non lo superò: tanto è difficile immaginare, ammirando quest’opera, che l’arte scultorea possa raggiungere virtuosismi maggiori.

Ma l’eccezionale abilità del Corradini come autore di figure velate si rivela anche in altre città d’Italia. Anni fa, in vacanza a Udine, stavo visitando la chiesa di San Giacomo quando la mia attenzione è stata attirata da una figura “sorella” della Pudicizia, di mano dell’artista veneto: la misteriosa Donna velata, per alcuni la Sara della Sacra Scrittura, per altri l’allegoria del “lutto”. E un’altra sua “velata” ho scoperto ancora a Udine, nel duomo: la Fede, visibile però da lontano data la sua collocazione in cima ad un mausoleo della famiglia Manin.

Il terzo incontro con questo mago dello scalpello l’ho avuto a Roma, nell’immenso salone affrescato da Pietro Da Cortona a Palazzo Barberini, dove troneggia la sua Vestale Tuccia, nome della leggendaria sacerdotessa romana ingiustamente accusata di aver violato il voto di castità. La bellissima statua – un prodigio di veli e di elaborati panneggi– rimase invenduta per il prezzo eccessivo preteso dallo scultore.

La “velata”. È stato il Corradini a introdurre e diffondere in scultura questa tipologia, dando sì prova di stupefacenti capacità tecniche, ma non solo: con queste figure muliebri i cui lineamenti, sempre bellissimi, si intuiscono appena tra le pieghe del marmo, a me sembra che abbia inteso indicare che la vera bellezza non è mai qualcosa di sfacciato, apparenza soltanto, ma abita nell’interiorità. Se così fosse, andrebbe considerato anche il suo contributo a dare un’anima a quell’arte barocca spesso classificata come teatrale ed esteriore.

 

 

 

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