La bellezza di Alceste

L’Alceste di Gluck all’Opera di Roma.  Uno spettacolo di assoluto pregio
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Cosa c’è di perfetto nei tre atti della Tragédie Opéra di Gluck, anno 1776 a Parigi?

Perfezione sembra infatti la parola giusta per un lavoro, tratto da Euripide, che smorza ogni angoscia, il dramma della moglie fedele che dà la vita per il marito Adméte finendo negli Inferi, salvata poi provvidenzialmente da Ercole.

La trama, come si nota, è classica: gli dei sono crudeli ma anche giusti- come i sovrani del secolo diciottesimo – l’amore deve essere eroico, soprattutto femminile, ma alla fine è sempre vittorioso: così vuole il secolo dei Lumi.

Gluck, tedesco scrupoloso, ripensa la sua opera già scritta in italiano per le scene francesi, compone un miracolo di equilibrio e di freschezza. Nessun eccesso virtuosistico nelle parti dei cantanti, ricchezza strumentale – preferibilmente colori al pastello – , e il dramma prosegue limpidamente tra arie, cori, duetti e recitativi ”accompagnati” insieme alle immancabili danze (siamo a Parigi).

Ci sono momenti di poesia purissima, basterebbe solo ascoltare il finale dell’atto secondo: è il grande e commosso momento tra Alceste, decisa a morire per lo sposo, e il coro che compiange lei “fiore sbocciato che un soffio di vento avvizzisce”, per scorgere una ispirazione profonda resa da  una musica tersa, trasparente.

La bellezza trasparente, candida come una statua del Canova, ma dai fremiti nascosti,  è infatti la cifra di questo capolavoro di sentimento e di grazia. Neoclassicismo, preromanticismo? Chissà: è Gluck.

Al romano Teatro dell’Opera è stato offerto uno spettacolo di assoluto pregio, bellissimo. In primo luogo, la resa musicale: l’orchestra sembra nuova, flessibile, chiara, omogenea nel suono pastoso, diretta con calore e misura precisissima da Gianluca Capuano.

Nel cast preparato e curato  Marina Viotti è un Alceste convincente sia attorialmente che vocalmente accanto al fervido Adméte del tenore Juan Francisco Gatell, mentre il coro sfoggia un canto appassionato e corretto.

Di notevole bellezza la regia e la coreografia di Sidi Larbi Cherkaoui sulle  scene ”metafisiche” di Henrik Ahr e i costumi leggeri di Jan-Jan Van Essche.

Una luminosità trepida mette in rilievo i momenti di danza, autentici commenti musicali non invasivi, e la regia stessa si rivela di un raro equilibrio: sostiene la musica, la commenta con misura, frena la fantasia per creare un insieme, ossia un dramma dove canto, orchestra, danza e parola formano un tutt’uno armonioso. Operazione riuscita. Repliche fino al 13.

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