La bella favola di Sonnambula
Pensate ad un’opera dove la musica non scende di livello nemmeno un istante, dove la trama è così esile da esser detta in un poche righe (l’orfana Amina sposa il ricco Elvino, viene creduta infedele, poi si scopre che è sonnambula, e c’è la riconciliazione dei due),un villaggio svizzero di fantasia: tutto è fatto per la superomantica storia d’amore che il siciliano focoso Vincenzo Bellini fece trionfare al Teatro Carcano a Milano nel 1831. Da allora non ha più smesso.
Sì, perché qui l’amore è vero: lei candida, lui geloso mediterraneo più che svizzero, lei capace di diventare quasi folle per esser stata lasciata, il coro del villaggio umorale e onnipresente, ed un conte misterioso che non è insensibile alle grazie femminili. Scarsi ingredienti in una narrazione dove succede ben poco, perché tutto si svolge nel sentimento. Bellini inventa melodie di una lunghezza infinita, squarcia paesaggi lirici, espande il canto in arie duetti, concertati e cori insieme all’orchestra che, tutt’altro che povera, è un canto in trasparenza con le voci con timbri pastosi e quella tendenza alla dissonanza carica di significati, tipica di Bellini. Sentire, a crederci, la cavatina di Amina “Come per me sereno” dove la natura “brilla per lei”(versi di Felice Romani presi da Leopardi), il duetto “Prendi l’anel ti dono”(commentato dal clarinetto), il madrigale “Son geloso del zefiro errante”; e poi il notturno della tentata seduzione sempre sul respiro del clarinetto, la paura del fantasma, i concertati di stupore (“Lisa mendace anch’essa”) che Bellini sublima nel regno del dolore amoroso, della lirica più pura. E infine l’aria “Ah, non credea mirarti” vertice del lamento casto così toccante che è stata incisa a Catania, nel duomo, sulla tomba del Maestro, morto solo a 34 anni. Siamo nel cuore del romanticismo belliniano, unico, senza sentimentalismi: il pathos è pathos,la passione è passione e la poesia lirica si fa, con la forza della melodia, canto universale.
Lavoro perciò delicatissimo, che va curato perché ogni dettaglio è poesia ed ogni strumento dell’orchestra un solista- i legni in particolare -, come le voci che Bellini situa in tessiture altissime, vette di un amore che è strazio, follia, struggimento, ebbrezza. A Roma, al Teatro dell’Opera, è in scena fino al 3 marzo, ma la si potrà vedere e ascoltare anche il 29 marzo su Rai5 alle 21,15.
L’edizione romana, pressoché integrale, ha il suo punto di forza nel soprano Jessica Pratt, splendida: pianissimi da sospiro, acuti mozzafiato, senso della linea melodica belliniana con i suoi “tempi rubati” e i virtuosismi giusti come specchio dell”anima. Con lei l’Elvino del tenore Juan Francisco Gatell che brilla specie nel secondo atto per forza, ardore e voce melodiosa, come pure il Conte di Riccardo Zanellato e la Lisa di Valentina Varriale. La regia di Giorgio Barberio Corsetti colloca l’azione non nella Svizzera alpestre ma in un mondo favolistico infantile di bambole, orsacchiotti, casette, un lettone, una superpoltrona, proiezioni di cieli, fiori , persone ad evocare la favola bella, insieme all’immancabile carrello mobile – ormai una moda dei resisti – su cui si arrampicano coro e cantanti. Di fronte alla sublime linearità della musica belliniana, tutto ciò diventa discutibile e sa di neobarocco.
La direzione di Speranza Scappucci ha privilegiato, a ragione, i fiati, i loro impasti frequenti ma rapidi, il senso del canto negli accompagnamenti, dosando bene i “rubati”, anche se gli archi ne sono risultati un po’ mortificati e il “tutti” talvolta opaco. Un po’ di fuoco e di tempi più mossi non sarebbe male: Bellini è un mediterraneo romantico! Nell’insieme, siamo ad una prestazione musicale di livello, grazie anche al coro i n forma e al cast. Da veder e soprattutto ascoltare.