La battaglia di Alessandro
Ogni volta che mi capita di tornare a Napoli, non manco mai di fare una puntata al Museo archeologico nazionale. Scopo della visita: tastare il polso dei lavori di restauro e ristrutturazionedi questo imponente edificio costruito nel 1585 come “caserma di cavalleria”, ora sede di uno dei più importanti musei archeologici al mondo, se non il più importante per quanto riguarda l’epoca romana, grazie alla straordinaria ricchezza delle sue collezioni, di cui le principali sono la Farnese (costituita da reperti provenienti da Roma e dintorni), la borbonica (con reperti dell'area vesuviana,) e l’egizia, che si colloca in Italia al secondo posto dopo quella torinese. Lavori ormai ventennali, finalizzati ad una riorganizzazione globale delle collezioni secondo criteri espositivi nuovi e alla definitiva sistemazione di alcune raccolte rimaste per decenni nascoste (si stima che i reperti attualmente in deposito, distribuiti su tre livelli dei sotterranei del palazzo e su un piano del sottotetto, superino di tre volte quelli esposti).
Nessuna meraviglia quindi, dati i lavori in corso, se anche stavolta troverò alcune sale chiuse e sculture anche colossali spostate dalla primitiva collocazione o esposte su provvisorie pedane di legno. Dopo aver superato l’atrio del Museo, salgo lo scalone monumentale dominato dalla statua di Ferdinando IV di Borbone, il re che decretò l’apertura ufficiale del “Real Museo Borbonico”, opera del Canova. Al piano ammezzato sul lato sinistro mi dirigo verso alcune sale sempre aperte: quelle dei mosaici provenienti da Pompei, Ercolano ed altre città campane. E qui non mi stanco mai di ammirare quella «meraviglia dell’arte», come la salutò Goethe al suo apparire, che oggi costituisce uno dei tesori più preziosi del Museo archeologico napoletano: la Battaglia di Alessandro, il più famoso mosaico pervenutoci dall’antichità.
Questo “tappeto” di circa quattro milioni di tessere, attualmente esposto su una parete come un arazzo, ornava il pavimento di una esedra della cosiddetta Casa del Fauno, la più fastosa dimora privata dell’antica Pompei, dove fu rinvenuto nel 1831. Esso riproduce un dipinto purtroppo perduto, opera di un maestro greco per il quale si è fatto il nome di Filosseno di Eretria, e più recentemente – secondo l’acuta lettura di Paolo Moreno – addirittura di Apelle, il più eccelso pittore dell’antichità classica, che fu attivo alla corte di Filippo il Macedone, del figlio Alessandro Magno (seguendolo fra l’altro nelle sue imprese) e dei suoi successori.
Quanto famosa fosse nel mondo classico questa rappresentazione della vittoria di Alessandro su Dario, re dei persiani, lo dice il numero di riproduzioni esistenti sia a bassorilievo (su urne etrusche e sarcofagi) che dipinte (su vasi apuli), pur nelle varianti e nelle semplificazioni: insomma, una scena paragonabile per popolarità alla Creazione di Adamo della Cappella Sistina. Chiediamoci però: quale battaglia l’artista ha voluto immortalare? Non la sconfitta dei persiani a Isso del 333 a.C., come a lungo si è supposto, ma la loro successiva rotta a Gaugamela nel 331, come vedremo.
Il grande mosaico (misura 5,82 metri per 3,13) ne fotografa il momento più drammatico e decisivo, quando, dopo un’iniziale disfatta, Alessandro, irrompendo da sinistra di chi guarda sul cavallo Bucefalo alla testa dei suoi cavalieri scelti, travolge le schiere persiane costringendo il re Dario a una precipitosa ritirata. Poteva bastare raffigurare l’irresistibile riscossa del Macedone e l’umiliante fuga del suo avversario: sennonché, all’interno di una descrizione che sembra tradire l’esperienza diretta o, comunque, commentare passo passo il racconto che della battaglia fanno Plutarco e altri storici dell’antichità, l’artista ha voluto inserire due episodi che rendono con estrema crudezza i nefasti effetti del demone della guerra.
Nel primo, viene colto l’attimo in cui un guerriero indiano, un fedelissimo di Dario, corso a fare scudo con il proprio corpo al suo re incalzato da Alessandro, viene trafitto dalla sarissa (l’asta) a lui destinata e scivola dal cavallo stramazzato in avanti. Dal suo carro di guerra il re persiano assiste impietrito al sacrificio dell’amico e in un gesto di angosciosa impotenza si protende verso di lui.
Intanto l’auriga, preso dal panico, alza la frusta pretendendo un varco e imprime una violenta sterzata al cocchio, che sembra balzare in diagonale fuori dal quadro; ma nel far ciò travolge anche alcuni compagni. Caduto sotto la ruota destra, un mercenario greco fa appena in tempo a vedere riflessa sul proprio scudo la sua stessa immagine: è il secondo episodio cui accennavo, forse ancora più sconvolgente dell’altro: cosa può esserci di più atroce, infatti, del dover assistere alla propria morte? Fra l’altro, sempre secondo Moreno, nel volto riflesso nello scudo metallico andrebbe riconosciuto l’autoritratto di Apelle, vera e propria “firma” dunque al suo capolavoro.
È certo che modello del rifacimento musivo non fu il dipinto originale, collocato in una reggia, ma una sua copia; che alcuni dettagli furono male interpretati dai mosaicisti; che nel trasporto da un atelier alessandrino a Pompei – se già non venne realizzata in loco, come ipotizza Fausto Zevi – l’opera subì danni malamente poi restaurati, cui si aggiunsero quelli ben più gravi provocati dal terremoto che funestò Pompei 17 anni prima della catastrofe definitiva del 79 d.C.: ombre dunque di un capolavoro e, nonostante tutto, così eccelso da farci chiedere cosa dovette essere l’originale!
La grandiosa scena musiva esercita un’attrazione magnetica sull’osservatore. Più la si contempla e più se ne ammira il disegno magistrale, l’articolazione prospettica in tre diversi punti di fuga, sì da avere l’impressone di essere proiettati nel cuore dell’evento; il dinamismo che la percorre, fatto di spinte e controspinte; nonché la capacità di rendere con soli quattro colori (bianco, giallo, rosso, nero) le forme e il senso di profondità della scena stessa.
Non è possibile qui dare conto di come ogni minimo dettaglio corrisponda a verità storica e ad un’esperienza dal vivo. Si pensi che la stessa luce che dà risalto alla scena riproduce l’orientamento del sole nell’ora esatta in cui infuriò lo scontro. Un accenno va almeno fatto alle mirabili figure dei cavalli, veri coprotagonisti della scena che il Leonardo da Vinci della Battaglia di Anghiari avrebbe invidiato, se avesse potuto conoscerli: ripresi nei più arditi scorci, denotano uno spirito di osservazione e una maestria che rinvierebbero, ancora, ad Apelle, di cui è noto l’episodio riferito dallo storico Eliano: «Alessandro, vedendo ad Efeso la propria immagine dipinta da Apelle, non l’apprezzò per quanto la pittura avrebbe meritato, ma il cavallo di Alessandro, portato davanti al quadro, nitrì al destriero che vi era riprodotto, come se fosse stato vero anche quello. Allora Apelle esclamò: “O re, però questo cavallo sembra molto più esperto di te in pittura!”».
E in effetti i cavalli raffigurati nel mosaico sembrano resi con maggiore abilità degli stessi personaggi “umani”! Sono loro soprattutto, mostrando il bianco degli occhi dilatati dal terrore, a esprimere la concitazione del momento: i soli a guardare “fuori” del quadro, quasi a cercare la partecipazione di chi osserva, accomunati agli uomini nella stessa tragedia – antica quanto il mondo – da cui neanche la natura è risparmiata, come la stessa ambientazione sembra suggerire.
Gaugamela, dove avvenne la battaglia rappresentata, era una piana in cui spiccava l’Albero secco o Albero solo tramandato dagli storici: precisamente un platano, di cui ancora al tempo di Marco Polo si potevano rintracciare i resti millenari. Infatti, dalla mischia di uomini e animali emerge – nel lato sinistro della scena – il tronco disseccato di un albero, su uno sfondo irto di lance: innaturale sostituto di ciò che si aspetterebbe in una verde pianura. È singolare che questo tragico tronco corrisponda alla altrettanto tragica figura di Dario nel lato opposto: come lui inclinato a sinistra e con i rami protesi che sembrano mimare il gesto disperato del sovrano. Qualcosa di più, dunque, di un semplice espediente tecnico per equilibrare la composizione?
Neppure nella fascia inferiore del mosaico, là dove appare il libero suolo fra i caduti e i gruppi di combattenti, vi è segno di vita vegetale (tutto, infatti, era stato raso per agevolare la manovra dei carri falcati), ma solo spade e lance contorte. Veramente, dovunque passa, la guerra lascia un deserto. Non poteva essere espressa più efficacemente l’essenza di un fenomeno apportatore di morte e distruzione fra tutti gli esseri viventi. Ed è per questo che considererei quest’opera d’arte, destinata a celebrare la vittoria di un grande della storia, quasi una sorta di “manifesto” contro la guerra, oltre forse le stesse intenzioni dell’artista che la concepì.