La battaglia dei genitori di Alfie
Pochi mesi fa tutto il mondo aveva tenuto il fiato sospeso e seguito la storia di Charlie, un bambino inglese morto a meno di un anno per una grave malattia neurodegenerativa. Nonostante gli appelli e i ricorsi legali, ai genitori fu negato fino alla fine la possibilità di portare il bambino negli Usa per tentare un trattamento che i medici inglesi ritenevano inutile e tale da essere configurato come accanimento.
Dopo 9 mesi drammaticamente la storia si sta ripetendo: ora il piccolo si chiama Alfie ed è nato a Liverpool il 9 maggio 2016, dopo 6 mesi di apparente buona salute sono comparsi i primi segni dei problemi neurologici, peggiorati col passare del tempo con la comparsa di crisi respiratorie e convulsive. Il bimbo ora è ricoverato all’Alder Hey Children’s Hospital di Liverpool dove i medici hanno riscontrato una malattia neurodegenerativa progressiva di sicura origine genetica, ma attualmente sconosciuta e sono intenzionati a “staccare il respiratore” perché ritengono che l’assistenza che si sta erogando stia diventando una forma di accanimento terapeutico.
L’indeterminatezza della diagnosi ha spinto i giovanissimi genitori di Alfie, Tom e Kate (21 e 20 anni), a rivolgersi ad altri specialisti, in particolare ai medici dell’Ospedale Bambino Gesù di Roma che hanno visitato il piccolo e che, pur verificando le condizioni gravissime, si sono resi disponibili a trasportarlo in Italia per continuare, se possibile, l’iter diagnostico ma, soprattutto, per accudirlo evitando qualsiasi sofferenza e accompagnarlo per il tempo che gli resta da vivere, con la vicinanza di mamma e papà.
Ancora una volta è fallita l’alleanza terapeutica tra i medici che hanno in cura il piccolo e i genitori; ancora una volta la collaborazione e la condivisione delle scelte terapeutiche ha dovuto lasciare il passo alle ordinanze dei giudici che l’ospedale sta facendo rispettare con l’aiuto della polizia. Gli agenti inglesi piantonano la stanza del piccolo e controllano a vista i genitori per paura che lo prelevino per portarlo all’estero, impedendo loro di avvicinarsi al letto del bambino.
È incomprensibile per noi che un padre e una madre vengano esclusi in questo modo dalle decisioni per la vita e per la morte del proprio figlio. Il pragmatismo inglese invece è molto sbrigativo e non lascia spazio a deroghe, escludendo addirittura l’assistenza del bambino fino alla morte naturale, ma decidendo in modo unilaterale di interrompere i trattamenti vitali (la respirazione in questo caso) perché ritenuti sproporzionati.
In questi mesi di sofferenza l’opinione pubblica si è schierata a favore di Tom e Kate e anche la squadra dell’Everton di cui Tom è tifoso, appoggia le loro richieste. Molti vegliano all’esterno dell’ospedale tenendo in mano dei cartelli blu (colore del club calcistico) che chiedono di “liberare” Alfie, di rilasciarlo, come se si trattasse di un prigioniero…
L’iter giudiziario continua inesorabile e ieri è stato respinto l’ultimo ricorso, il tribunale ha concesso che l’assistenza sia continuata fino al pronunciamento definitivo dell’Alta Corte che deciderà il giorno e l’ora del distacco del respiratore.
Che fretta c’è di precipitare così le cose? Spesso si afferma il valore inestimabile di ogni vita umana, qui invece si valuta piuttosto se vale ancora la pena continuare ad accudire questa fragilissima esistenza, giudicandola “futile” (termine inglese usato da uno dei giudici che si è dichiarato a favore della sospensione dei trattamenti), mettendo sui piatti della bilancia, da un lato, le condizioni di vita e, dall’altro, i costi sociali per mantenerle: è questa la società che vogliamo?