La base della pace
Alle 19 piazza San Pietro non è piena che a metà. Qualche bandiera sventola, di Siria, Iraq, Cina, Argentina, qualche drappo arcobaleno della pace. Emerge tra i colleghi che s’incontrano ai bordi della folla il timore «che la grande folla anche questa volta sia mobilizzabile dalle emozioni ma non dalla ragione», come mi confida un giornalista francese. E stasera non c’è da gridare “viva il papa”, ma da far silenzio e pregare per la pace.
Arretro un po’, verso via della Conciliazione, e m’accorgo che la gente in realtà sta arrivando. Lentamente, coscientemente. Mi fermo ad osservarla. Ci sono dei volontari di Emergency e le suorine di Madre Teresa, le sessantenni colla corona del rosario in mano e intere famiglie con tanto di passeggini e biberon; si riconoscono musulmani ed ebrei, prelati in veste dimessa e gente che non mette piede in chiesa da decenni, o forse mai c’è entrata. Uomini e donne di ogni età. Una folla strana, insolita per il Vaticano.
C’è qualcosa di incontestabile in questa folla silenziosa, che poco alla volta riempie l’intera piazza e anche parte di via della Conciliazione. Chi mai riesce a mettere assieme gente tanto diversa? Solo il desiderio di pace. Un valore irrinunciabile, condiviso non solo da cattolici, cristiani e credenti, ma da tutti. E mi dico che questa piazza insolita evidenzia quella che è la radice della pace: la cultura della relazione, la cultura del dialogo, quelle che Francesco non si stanca di nominare e invocare ovunque egli vada e parli. L’ha fatto anche nella lettera a Putin, per il G20. Quella cultura che in fondo evidenzia la fraternità di base, incontestabile quando ci si ritrova fianco a fianco per la persona umana, per i suoi diritti.
Norberto Bobbio, laico illuminato, aveva scritto nel 2006 un libretto non innocuo, Elogio della mitezza. Sì, la mitezza non è prerogativa esclusiva dei credenti, è di ogni uomo che sappia rinunciare alla violenza. La mitezza è la vera forza. La gente che ha popolato piazza San Pietro durante la veglia è mite. È mite il papa nelle sue parole severe, ma pacate. E forti: «Il mondo di Dio è un mondo dove ognuno si sente responsabile del bene dell’altro. Ma è questo il mondo in cui viviamo? C’è la violenza, la divisione, lo scontro, la guerra… Ciò accade quando l’uomo si chiude nel proprio egoismo… quando segue gli idoli del dominio e del potere… Il fratello, da persona da custodire, diventa persona da combattere, da sopprimere… In ogni guerra, in ogni violenza noi facciamo rinascere Caino. La violenza e la guerra portano solo morte, hanno il linguaggio della morte».
La domanda che pone Francesco ai presenti è grave: «È possibile percorrere la strada della pace? Sì, è possibile per tutti». Per tutti, anche per i politici. «Apriti al dialogo e alla riconciliazione… Guarda al dolore dei bambini… Ferma la tua mano, ricostruisci l’armonia spezzata. Non con lo scontro, ma con l’incontro». E rievoca le parole di Paolo VI: «Non più gli uni con gli altri… La pace si afferma solo con la pace… non disgiunta dalla giustizia, ma alimentata dal sacrificio proprio». L’invito finale è rivolto a tutti, dai cattolici agli uomini di buona volontà: «Diventiamo tutti uomini di riconciliazione e di pace». Parole pacate. Destinate ad aprire il lungo, interminabile silenzio dell’adorazione. La pace è anche e soprattutto far silenzio.