La banalità della morte
Ricordiamo tutti la più celebre espressione coniata da quella grande filosofa ebrea che fu Hannah Arendt e immortalata nel titolo di un libro: La banalità del male, scritto redatto contro il nazismo e i disastri contro l’umanità perpetrati da ideologie farneticanti. Dovremmo rileggere quelle pagine, in un’epoca in cui cresce l’assuefazione al male, alla morte e alla sua rappresentazione. “La morte in diretta”, bisognerebbe definire la valanga mediatica che rischia di sommergerci, parafrasando una nota trasmissione televisiva “La vita in diretta”. Non è un azzardo letterario: perché spesso e volentieri si finisce col confondere la vita con la morte. Prendiamo la fine del leader di Hamas Sinwar, fatto fuori “in diretta” da un drone israeliano che è andato a pescarlo, quasi per caso, in una casa nella Striscia di Gaza. Quel drone era fornito di una telecamera che ha ripreso l’evento, che è poi stato dato in pasto all’opinione pubblica mondiale come fosse un grande successo, come un trionfo della vita. Al di là delle malefatte di cui il palestinese dovrà farsi carico nel tribunale celeste, resta un fatto: un assassinio, una morte, un atto di guerra non è e non sarà mai un bene.
Ma non c’è solo l’ultimo atto del conflitto che oppone Hamas e Israele, con alleati di diverso genere da una parte e dall’altra, noi compresi: la morte, la guerra, il male sono ormai pane quotidiano. Anzi, per la legge ben conosciuta dell’assuefazione − meccanismi familiari a coloro che curano le addiction, le dipendenze da droghe, da alcol, da sesso, da eccessi ludici o da compulsività consumista −, più la dipendenza avanza e più bisogna alzare la barra della perversione, cioè del male: dosi di droga sempre più massicci, litri di alcol mischiati a porcherie chimiche, sempre nuove prede per il proprio piacere sub-sessuale… Questo meccanismo vale – mutatis mutandis − anche per noi spettatori della guerra, che abbiamo bisogno di sempre nuove rappresentazioni del male e della morte che solleciti la nostra barbara ma umanissima tensione a scandalizzarci e ad inorridirci, senza accorgerci che la dipendenza da tali immagini aumenta. Appunto, la banalità del male, della morte e della loro rappresentazione.
C’è un ulteriore elemento di cui tener conto: l’esposizione della morte e del male, la crescita della quantità di sozzura di cui nutriamo il mostro che abita in ognuno di noi, ha la pretesa di trasformare il male in bene, e viceversa. Ogni morto ammazzato è una sconfitta per l’intero genere umano, lo diceva un ebreo come Martin Buber, lo hanno ripetuto altri ebrei come Edgar Morin e Amos Oz. Non lo diceva solo Gesù Cristo e la sua Chiesa, lo dicono anche i maestri sufi musulmani, i seguaci della tradizione bhakti e ogni sistema di pensiero degno di tal nome. Ora pretendiamo che le vittime del 7 ottobre o i più di 10 mila morti di Gaza siano un bene, relativo certo a chi si pretende dalla parte del bene contro la parte del male. Il manicheismo torna trionfante, sulle ali di una rivoluzione digitale che polarizza le posizioni degli umani. Le fake news e la postverità pretendono appunto di trasformare il male in bene, e viceversa. L’importante è crederci. Ma il principio di realtà ci dice che quando muore un palestinese o quando viene ucciso un soldato israeliano, ha trionfato in ogni caso la menzogna, che è l’essenza, l’anima della guerra.
Mi si dirà: ma tutto questo ragionamento non fa altro che relativizzare la realtà, che è fatta di bene e di male. Ma quando il bene viene individuato solo dalla propria parte, demonizzando il nemico, ecco che il bene perde la sua bontà per diventare un male. Sono regole etiche che vigono dall’inizio dell’avventura umana su questa terra, non banalità buoniste o salomoniche. Mors tua vita mea, dicevano i latini nel Medioevo. Un ebreo aveva invece detto: mors mea vita tua. Lo si è dimenticato.
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