La bambina e l’onda
La bambina amava sedersi di fronte al mare. Lo andava a trovare tutte le sere. Parlavano, a modo loro, come due che si conoscono ed aspettano da sempre. Lei preferiva tacere, dondolata dalla risacca ascoltava la sua voce: una cantilena. Onde lievi, di tanto in tanto, arrivavano fino ai piedi della bambina e li accarezzavano. Il mare le raccontava di terre lontane bagnate dalle sue acque, di uomini che parlavano lingue simili a venti, di navi innumerabili, di naviganti un giorno partiti e non ancora approdati, di viaggi circolari, di rotte perdute, di naufragi, di un’isola sottomarina. Quest’ultima era la storia cha la bambina preferiva; l’aveva sentita mille volte e mille ancora l’avrebbe ascoltata.
C’era un vulcano sommerso, da qualche parte nel cuore dell’oceano, che eruttava senza tregua un magma di coralli, conchiglie e perle. Certe notti, frammenti di lava marina risalivano a galla, vincendo la gravità. E la superficie del mare si accendeva attraversata da un fremito di luce. Quando la bambina ascoltava quella storia, una nostalgia dolcissima si alzava come un’onda nel suo cuore; avrebbe voluto abbracciare il mare, contenere in sé la sua infinità. Ma lei era solo una creatura minuta, un niente di fronte all’immenso, un niente amorevole e fiducioso che a lui si abbandonava, aprendogli il cuore, raccontando quello che ad altri non aveva mai detto: i suoi sogni, i timori, il bisogno d’amore. Il mare la rassicurava, cullava i suoi pensieri, infondeva speranza e pace.
Una sera sedevano l’una di fronte all’altro, senza dirsi niente, guardandosi soltanto, come genitore e figlio, come due innamorati che ormai tutto di sé sanno, quando l’acqua iniziò a ritirarsi dalla riva in modo anormale. La bambina guardava stupita. L’acqua si allontanava sempre di più verso il mare, lasciando dietro di sé una vasta battigia e al tempo stesso si alzava, inarcandosi di metro in metro, in un equilibrio impossibile e perfetto. Il rumore del mare mutò: la cantilena divenne fragore crescente. Un’onda maestosa, sorta senza una ragione, prendeva forma davanti ai suoi occhi. La sommità spumeggiava bianchissima, sembrava che al suo interno ribollissero vapori arcani destatisi da un lungo sopore. Il cielo e il mare si fecero scuri, su di essi spiccava la cresta nivea. L’onda iniziò a muoversi, magnifica e ineludibile, verso la riva. La bambina, ammutolita, non riusciva a pensare più a niente.
Quando l’onda arrivò a pochi metri da lei, l’orizzonte si oscurò del tutto. Dovette alzare la testa per scorgere la sommità di quella massa spaventosa d’acqua. Non sarebbe stata capace di dire quanti metri era alta. Ormai non aveva importanza. Tra un attimo si sarebbe infranta sul suo corpo minuscolo e l’avrebbe risucchiata in fondo al mare. Un rombo cupo proveniente dal basso, dal centro della terra o dagli abissi dell’oceano, sembrava annunciare l’imminente esplosione. Invece, d’un tratto, sulla riva scese il silenzio. L’onda rimase ferma, in bilico, per qualche secondo. La bambina trattenne il respiro col naso all’insù, gli occhi fissi sulla schiuma che era diventata una nuvola gigantesca. Dalla cresta si staccarono alcune gocce spumose che scesero danzando ed andarono a poggiarsi su i suoi capelli, come perle. Allora lei aprì le braccia, le palme delle mani rivolte verso l’alto. Una dopo l’altra, altre gocce si staccarono dalla sommità dell’onda, sempre più numerose, leggere, bianchissime, luminose. Nevicava. Sulla bambina a braccia aperte. Su quel lembo che non è più terra e non è ancora mare, dove ogni impronta d’uomo scompare. Erano fiocchi di luce. Il cielo risplendeva del loro fulgore. Erano perle di neve. La sabbia scomparve sotto un manto d’avorio. Poi l’onda iniziò a calare, ritirandosi verso il grembo del mare. Le ultime gocce indugiarono sospese nell’aria e caddero al suolo. Si sciolsero. Sulla sabbia, sulle mani, sul suo volto. Lei sorrideva, non aveva più paura, non aveva nostalgia. C’erano solo la bambina e il mare. Azzurroverde.
Io l’ho vista. In sogno. E non smetto più di sognare.