La baita dell’alpino

I boschi attorno Valbruna, in Friuli, custodiscono il sogno realizzato di un innamorato della montagna, divenuto luogo di pace e dimora ospitale

Circa dieci anni fa, durante una vacanza a Udine, venni guidato da Marco e da altri amici friulani come lui alla scoperta della Val Canale, solco vallivo delle Alpi Orientali esteso tra Pontebba e il valico di Coccau, nel quale coesistono – caso unico nel panorama culturale europeo – parlanti neolatini (friulani e italiani), slavi (sloveni) e germanici (carinziani germanofoni).

Tappa principale dell’escursione fu la frazione di Valbruna, rinomata località di villeggiatura e di sport invernali a 813 metri di altitudine, circondata da superbi boschi di abeti e larici, rifugio di caprioli, e da una corona di monti alti non meno di 2000 metri, tra cui spicca, imponente, lo Jôf Fuart le cui torri scintillanti di neve si spingono fino ai 2.666.

Nume tutelare dell’intero territorio è Julius Kugy, considerato il padre dell’alpinismo moderno nelle Alpi Giulie. Nato da madre triestina e padre austriaco verso la metà dell’Ottocento, uomo dai molti interessi, si occupò di scrittura, musica, botanica e alpinismo. In cerca di una pianta particolare, la Scabiosa Trenta, rivelatasi poi introvabile, in compenso si entusiasmò per queste montagne e dedicò una vita intera a scalarne le vette, aprendo cinquanta nuove vie assieme alle guide locali.

Come Kugy, il cui busto bronzeo occhieggia in uno slargo dell’abitato, tra finestre e balconi traboccanti di fiori, anche il nonno materno di Marco nutrì una vera passione per le Alpi. Si chiamava Giordano Vidoni ed era originario di San Daniele. Devo a lui, artefice di un luogo-simbolo di Valbruna, il mio ricordo più vivo di quell’estate lontana. Capitano degli alpini, dopo aver combattuto nelle due guerre mondiali – la prima sulle Giulie occidentali e la seconda in Albania – si costruì nel primi anni ‘50, in un sito ritenuto da molti valligiani “impossibile” (vedremo poi perché), una casetta a cui diede il nome di “Baite da l’alpin” (in lingua friulana), quasi uno spazio di pace e di bellezza dove rielaborare la terribile esperienza vissuta sotto le armi, ma anche da condividere con altri, sensibili anch’essi ai valori dello spirito e al fascino della natura.

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A visitare quel rifugio, che nonno Giordano lasciò in eredità alla figlia Franca, mi invitò Marco. Nessuna parola di preparazione a ciò che mi attendeva, per farmi una sorpresa. Fuori paese, immersa tra abeti e larici altissimi, la baita si ergeva arditamente sopra un enorme masso erratico trascinato a valle dai ghiacciai circostanti in chissà quali epoche remote. Testimone della caparbietà di chi la volle proprio lì contro il parere di tutti, la “casa sulla roccia” sembrava a prima vista accessibile ai soli uccelli. In realtà la base del roccione era forata da un breve tunnel al di là del quale una rampa zigzagava fino alla cima. Contrassegnava l’inizio del percorso questa iscrizione scolpita: «Gradito mi è far salire alpini, amici di alpini e chi ama e comprende la montagna». Realizzata in pietra e in legno, la baita aveva un piano superiore provvisto di balconata. Sul tetto a due spioventi un camino eruttava sbuffi di fumo bianco, segno che la cucina era in funzione. L’interno, rusticamente arredato, era caldo e accogliente come mamma Franca.

Non ricordo cosa ci avesse preparato per pranzo, se gli gnocchi con le susine, le costine di maiale con le verze o altre specialità della cucina friulana accompagnate da formaggio di malga e prosciutto di San Daniele, il tutto innaffiato da un buon Tocai o Verduzzo. Ho invece memorizzato ciò che Marco mi disse del vecio alpin, morto quando lui aveva dieci anni: «Mi restano il ricordo dei suoi racconti, immerso nella poltrona vicino al fuoco scoppiettante, un certo senso di mistero e di avventura che li avvolgeva, un grande amore per la montagna e i suoi alpini. Un amore che in noi, suoi discendenti, si è perpetuato nella passione per la montagna, per la natura, nel continuare a rendere, per quanto possibile, la “Baite da l’alpin” un luogo accogliente per chi, fra parenti e amici, cerca una sosta o un più lungo periodo di riposo».

I requisiti richiesti agli ospiti e le indicazioni pratiche per la convivenza li trovai esposti in una “Legge” in dieci articoli affissa a una parete del soggiorno. Un esempio: «Non è ammesso parlare male degli alpini: è gradita ogni manifestazione che tenda ad esaltare Dio, patria e famiglia. Non è ammesso in baita non essere amanti della natura».

Tra l’altro, il paron aveva creato dal nulla, attorno al roccione, anche un apprezzato giardino botanico che difese strenuamente dai vandalismi di chi non aveva rispetto della montagna e della sua flora, riuscendovi a far crescere i fiori più belli e pregiati delle Alpi Giulie, tra cui la rarissima Wulferia carinziana.

Curiosai anche nel Diario compilato dal Vidoni a partire dal 12 novembre 1954, data in cui la casetta iniziò ad essere abitata, fin quasi al 1968, anno della sua morte: dopo un esordio in cui la baita stessa prende la parola, si susseguono le notizie dei tanti ospiti che si alternarono nel corso del tempo: oltre ai prediletti alpini, turisti di passaggio, personaggi di spicco, artisti, poeti, scrittori o persone comuni che, riconoscenti, spesso lasciarono in questo memoriale foto, disegni, testimonianze, testi poetici. Uno di questi si rivolge alla baita: «Artigliata alla roccia/come aquila madre/che il nido difende,/le memorie proteggi/d’un cuore/d’alpino».

A Valbruna e alla “Baite da l’alpin” ho ripensato con nostalgia alla notizia recente della morte prematura del mio amico Marco, ora riunito ai suoi familiari e a nonno Giacomo.

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