La 33a pietra
Ha fatto piangere il mondo . Così si esprime, a nome della famiglia, la sorella di Seung-Hui Cho, l’autore della strage al Virginia Tech del 16 aprile, un massacro senza precedenti nella storia americana. Non ci sono parole per esprimere la nostra tristezza – continua il messaggio -, soffriamo insieme alle famiglie, alla comunità del Virginia Tech, alla Virginia, al resto della nazione e al mondo. Chi può mai azzardarsi a dire qualcosa dei motivi di un tale massacro senza senso? Vorremmo tentare una risposta con chi è in prima fila, cioè i giovani studenti. Vanessa Ruiz, appena laureata al Skidmore College di New York, ci dice: Penso che Cho sia stata una persona trascurata dalle istituzioni. E Kristen Meneilly, terzo anno al Fordham University di New York, ci racconta di una discussione durante la lezione di storia su come sia difficile prevenire eventi del genere; la domanda che ne consegue è attualissima: Qual è il compromesso tra sicurezza pubblica e libertà personale? . Amy Wallin, secondo anno al State University Stonybrook di New York: Devo uscire da me stessa e vivere la mia vita come strumento di bene.Voglio testimoniare che non va tutto male a questo mondo, che il bene esiste ancora. Al Virginia Tech, dove Cho studiava inglese, professori e studenti sono sconcertati dalla violenza, rabbia, voglia di vendetta e sentimenti di persecuzione che emergono dagli scritti di questo giovane. Qualcuno aveva segnalato i suoi comportamenti intimidatori e alcuni professori si erano proposti di intervenire. Poi, siccome nessuno aveva sporto denuncia e non si erano registrate altre minacce, non se n’era fatto nulla. Alcuni suoi compagni avevano cercato di coinvolgerlo, senza successo. Cho era anche stato ammesso in un ospedale psichiatrico per una valutazione del suo stato mentale e gli era stato ordinato di sottoporsi a terapia; ma dato che secondo la diagnosi non costituiva un imminente pericolo né per sé stesso e né per gli altri, era stato poi riammesso al college. Mio fratello era una persona quieta e riservata, ma faceva fatica ad inserirsi nella società – continua la sorella -: mai però lo avremmo immaginato capace di tale violenza. I giovani ammettono che viene naturale cercare di evitare un compagno di classe strambo. Per Elisa Fontana, studentessa al Long Island University, questi avvenimenti ti fanno venir voglia ancora di più di stare alla larga da questa gente. Ma io non penso che questa sia la soluzione. Chi descrive l’autore di questa violenza come il volto del male non ha colto il nucleo centrale del problema – sottolinea Mike Bacuyag, terzo anno al Rutgers University in New Jersey -. Quello che ha fatto è abominevole, ci lascia perplessi, come discutibile è stata la sua vita.Ma questo ragazzo non era nient’altro che un essere umano, purtroppo gravemente ammalato psicologicamente. Joyce Murray, ultimo anno, University of Maryland: Tutto quello che è successo è per me una riprova degli effetti che hanno le nostre azioni sugli altri. Un semplice atto di comprensione verso un prossimo che neanche conosciamo potrebbe essere sufficiente perché l’altro si senta capito e si tiri fuori almeno per quel momento dallo stato di depressione in cui si trova. Questo avvenimento ha cancellato in me la paura di avvicinare uno sconosciuto bisognoso d’amore. Aveva otto anni Cho quando era immigrato con la famiglia dalla Corea del Sud. Già dalle elementari e fino alle superiori la sua timidezza e il suo insolito modo di parlare erano d’ostacolo al suo inserimento in classe. Un compagno si ricorda che durante la lezione d’inglese, dopo aver letto ad alta voce, la classe è scoppiata a ridere e qualcuno beffandolo gli ha consigliato di tornarsene in Cina. Pam Sohn, immigrata a dieci anni, pure lei sud coreana, si è appena laureata alla St. John’s University in New York: L’intera società coreana si è sentita ferita. Gli immigrati appena arrivati sono preoccupati dell’impatto che questo gesto può avere su tutti loro. Mio papà mi ha raccontato di un fatto successo subito dopo la sparatoria: un bianco è entrato in un negozio e ha chiesto al proprietario: sei coreano o cinese? Quando il proprietario gli ha risposto che era coreano, quell’uomo gli ha detto seccamente: Allora non compro niente da te. E se n’è andato. Che tristezza ha provato Sohn quando ha scoperto commenti razzisti su alcuni siti Internet i giorni dopo la tragedia: Devo andare al di là delle mie preoccupazioni, dell’influenza che questa storia può avere anche su di me. Devo puntare ad amare per prima, commenta; e continua: Penso che chi si comporta in modo strano non stia lanciando altro che un segnale con cui chiede aiuto, attenzione. Alba Park, matricola al Carnegie Mellon University di Pittsburgh, coreana pure lei, ha scritto così ai compagni di classe: La diversità dovrebbe essere una fonte di arricchimento, non di divisione. Dice ancora Elisa Fontana: Dopo tragedie come questa si parla tanto e tutti vogliono che qualcosa cambi. Ma spesso rimangono parole. Va bene che si facciano tavole rotonde con esperti, ma sono i gesti d’ogni giorno che cambiano il mondo. E Christian Bacuyag, iscritto al terzo anno del Montclair State University, New Jersey, coglie che al di là della paranoia, della confusione e della paura sta emergendo una grande possibilità per noi studenti di riunirci per essere strumenti di speranza, portare amore e offrire preghiere a chi ha bisogno. Uno dei gesti forse più concreti e densi di significato è che gli stessi studenti del Virginia Tech abbiano voluto una trentatreesima pietra nel memoriale fatto dagli studenti del campus, in memoria anche di Cho, con candele e fiori pure per lui. Sono gli studenti le vittime al Virginia Tech – dice Christian-: in ogni angolo del Paese sono stati gli studenti a prendersi la responsabilità di riportare speranza a tutti. Mi sarei aspettato che tanti studenti avrebbero lasciato frasi amare sulla pietra di Cho, oppure deturpato il ricordo di chi ha causato così tanto dolore, scrive George Castelle, avvocato, su Charleston Gazette. Invece no: stessa quantità di fiori, stesso numero di candele e note di condivisione per lui come per gli altri. Gli studenti avevano capito che questo giovane era ammalato. In uno di questi messaggi per Cho è scritto: Mi fa male pensare che non hai ricevuto quell’aiuto che disperatamente cercavi. Se mai incontrerò qualcuno come te nella mia vita, spero di avere il coraggio e la forza di venirti incontro e di aiutarti.