La Nudge-ocracy di Obama e il rischio della libertà
Anche nel Bel Paese delle spintarelle e degli aiutini chiesti nei quiz (e talora non solo!) è arrivata da qualche anno una nuova teoria, che sta cambiando l’approccio alla regolazione pubblica. Forse ce ne siamo accorti circolando per strada, quando i rilevatori di velocità segnalano quanti punti potrebbe perdere la nostra patente se al nostro sfrecciare vi fossero le forze dell’ordine oppure un autovelox funzionante. Un esempio più recente è la “voluntary disclosure” , uno strumento che consente ai contribuenti che hanno patrimoni all’estero non dichiarati di regolarizzare spontaneamente la propria posizione con l’Agenzia delle Entrate, attenuando significativamente le sanzioni.
La teoria Nudge, che significa appunto “spinta leggera”, cerca di orientare la nostra mente verso alcune scelte piuttosto che altre, sostenendo questo processo con rinforzi positivi, suggerimenti o aiuti indiretti. Si tratta di interventi complementari al tradizionale apparato di istituzioni, regolamenti e leggi che ci “costringono” a rispettare alcuni comportamenti, normalmente punendone le deviazioni
Il suo sviluppo si deve al lavoro di due economisti comportamentali americani, Cass Sunstein e Richard Thaler (il loro best-seller “Nudge” è uscito anche in Italia nel 2008): siamo nel terreno dell’ingegneria economica, che facendo tesoro anche di esperimenti in laboratorio, aiuta la progettazione ottimale di nuovi mercati ed istituzioni, come pure la diagnosi e la cura di quelli esistenti.
Questo approccio ha trovato illustri sostenitori in politica, a partire dall’attuale Presidente degli Stati Uniti Barack Obama che ha affidato a Sunstein la guida dell’Oira (Office of Information and Regulatory Affairs), un organismo riformatore che si occupa di diversi temi rilevanti fra i quali le politiche ambientali, il sistema finanziario e la sanità. A ruota anche il premier inglese Cameron, e più recentemente, i governi italiani hanno utilizzato questo metodo.
Naturalmente tale sistema, che gli stessi autori definiscono “paternalismo libertario”, trova più di una critica anche fra gli economisti. Bob Sudgen, per esempio, si chiede se davvero la gente desideri farsi guidare verso una concezione di benessere decisa da altri, evidenziando come paternalismo e libertà non trovino sempre un naturale accordo. Il dibattito sul “paternalismo libertario” ci ricorda che il disegno delle istituzioni, nel bilanciamento fra regole, premi e punizioni, si trova spesso in dilemmi non facilmente risolvibili.
Per esempio, l’introduzione di premi per sostenere un tipo di comportamento, anche quando il premio ha una valenza sociale, aumenta la possibilità di accordo nelle scelte pubbliche, rischiando però di limitare l’espressione delle posizioni e delle libertà individuali. Lo ha confermato l’esperimento realizzato nelle università di Cagliari e Sophia lo scorso anno, invitando gli studenti a scegliere tra comportamenti cooperativi o meno: l’incentivo di un beneficio sociale, combinato con la possibilità di discutere, aumentava in modo significativo la probabilità di accordo.
Ma nemmeno quando si lascia un’ampia libertà ai singoli si ottengono sempre risultati ottimali. I fallimenti bancari, che riempiono le pagine dei giornali e i dibattiti in tv, chiamano in campo gli “architetti delle scelte”, non solo per quelle di investimento da parte di soggetti ingenui davvero intrappolati nella “razionalità limitata” – un modo tecnico per definire i limiti di conoscenza ed esperienza di queste persone. Sono infatti professionisti specializzati a scrivere i contratti, definendo le modalità informative e strutturando i sistemi di controllo. Sono loro che possono aiutare a creare situazioni di scelta più o meno consapevoli per i soggetti coinvolti.
Ma quale architettura scegliere, nel cocktail fra libertà e paternalismo? A chi spetta tale decisione? Quanto vasto deve essere il campo di intervento dei regolatori nella vita sociale? Si entra così nel lungo dibattito sulle diverse visioni della democrazia.