L’11 settembre di Chiara Lubich

Davanti agli attentati, ai morti, alla tragedia della guerra, la fondatrice dei Focolari ha tracciato una sua strategia di pace paradossale e concreta
11 settembre

Chiara Lubich quell’11 settembre 2001 si trovava a Mollens, una cittadina svizzera. È su quelle montagne che la raggiunge la tragedia di New York, di Washington, della Pennsylvania. Anche lei vede il crollo delle Torri, la corsa disperata di chi tentava di salvarsi, i corpi che si lanciavano nel vuoto, quella nube di detriti, fiamme e fumo che si spandeva a Manhattan. Gli schermi le portano in casa il Pentagono squarciato e i resti dell’aereo schiantatosi in un campo della Pennsylvania. Il suo primo pensiero va ai suoi.

Quanti dei membri del Movimento dei Focolari, da lei fondato, erano vivi o erano sotto le macerie? Non c’erano cellulari diffusi, ma solo regolari telefoni e fax. Chiara vuole sapere. Chiama, domanda con apprensione, si chiede come gli amici musulmani afro-americani stiano affrontando quanto emerge dalle prime indagini e cioè che i terroristi si professano seguaci di Maometto. Mentre dal fax fogli su fogli si accatastano ininterrottamente con notizie, testimonianze, dichiarazioni politiche, momenti di sgomento, panico, sofferenza, piccoli e grandi atti di solidarietà e di preghiera, matura nel suo cuore una strategia di pace, un piano di fraternità. Mentre si cercano ancora le vittime e i dispersi e la politica matura attacchi di guerra, Chiara Lubich in un’intervista a Radio Vaticana, del 17 settembre, confessa: «Quello che per tutti sembra un passo indietro per me ha un significato diverso. Paradossalmente le porte si spalancano per arrivare prima all’unità». Lo  spirito indomito di questa donna trentina auspica che «l’America non si lasci tentare dall’odio» e che «non si lasci fare solo alla politica». Chiede che «si preghi per imboccare la strada giusta secondo la saggezza e il buon senso»; che l’uomo della strada si dia da fare «per aiutare chiunque con qualsiasi mezzo perché l’Amore è inventivo».

A distanza di 20 anni sembra che del diverso, intravisto da Chiara, ci sia stato ben poco: due conflitti hanno seminato altre morti, instabilità, miseria; aggiungendo altre tragedie a quella vissuta dagli Usa. I 20 anni da quell’11 settembre registrano altri uomini che si lasciano cadere, stavolta dagli aerei; nuove bombe fanno strage di oltre 200 persone tra civili e militari, stavolta sotto il cielo di Kabul e la parola fraternità sembra quasi stonare. Il piano di Chiara è fallito? Uno dei punti della spiritualità della Lubich e anche del suo piano di fraternità prende di mira gli scartati, i più feriti, i disperati perché richiamano a quel dolore che l’umanità vuole scansare e che invece gli si presenta innanzi inevitabile, anche per Dio, che ne fa l’esperienza sulla carne in Gesù. Gli ultimi dell’11 settembre 2001 sono sì gli orfani e i sofferenti che Chiara chiede di ospitare nei centri del movimento nell’area di New York; ma sono anche i musulmani; gli stessi con cui lei aveva stretto un patto di amicizia, qualche anno prima nella moschea di Malcom X, nel cuore di Harlem. Sono anche loro ad essere additati come criminali, terroristi. Insultati e picchiati perché una fede deviata ed estremista ha prodotto morte e sangue, invece della pace e della benevolenza che accompagna il nome di Allah. «Dobbiamo riconoscerci fratelli, cristiani e musulmani. È questa la strada: la fraternità. È quello anche il correttivo della politica deviata»: il piano paradossale di Chiara si delinea in queste semplici affermazioni, che ad Indianapolis si fanno storia.

Il Centro islamico Nur-Allah aveva subito diverse minacce di bombardamento nei giorni successivi all’11 settembre. Così, quando i musulmani del centro si sono riuniti per la preghiera il venerdì dopo gli attacchi, tutti sapevano che avrebbero potuto diventare loro stessi vittime di un contro attacco. Quel giorno alla preghiera partecipano alcuni dei membri dei Focolari; anche loro consapevoli che varcare quella soglia poteva significare la morte.

«È stata un’esperienza molto commovente – ricorda David Shaheed , giudice afroamericano e membro di Nur-Allah –. Si sono sentiti legati a noi. Ci sentivano amici e vicini di casa. Hanno messo a rischio le loro vite per stare con noi in un momento della storia così tumultuoso e spaventoso».

John Mundell, bianco e membro dei Focolari, ha definito quel momento uno dei più sacri della sua vita. «Quando siamo entrati in gruppo e ci hanno visto, lo sguardo esprimeva la consapevolezza che ciò che avevamo stabilito tra di noi era reale. Non c’era niente di falso o superficiale in questa amicizia. Avevamo accettato la sfida della morte».

Per fortuna quel giorno non ci sono stati attacchi, ma la domenica i musulmani si sono presentati alla messa in parrocchia, in segno di reciprocità. Da quel momento i membri dei Focolari e di Nur-Allah sono stati invitati in università, centri culturali, parrocchie in tutti gli Stati Unit per raccontare di un dialogo interreligioso diventato fraternità. In questi 20 anni, incontri mensili hanno accompagnato un cammino di conoscenza, di condivisione di ingiustizie, di lotta al razzismo.

«Ci sono momenti in cui Dio ci chiama all’unità attraverso il dolore – ha dichiarato Michael Saahir, l’imam di Nur-Allah –, la gente ha bisogno di vedere un modello, un esempio. Il nostro rapporto con i Focolari è un modello, non solo per musulmani e cattolici, ma per chiunque veda che la fraternità è fattibile ed è longeva». Ora un nuovo punto si aggiunge al piano di Chiara: trasmettere questa esperienza concreta di fraternità alle nuove generazioni, quelle che l’11 settembre non erano neppure nate.

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