L’11 settembre al tempo di Irma e Harvey
Sebi ha dovuto lasciare la sua casa di Miami perché Irma, l’ultimo uragano che sta flagellando la costa sud degli Usa, l’avrebbe colpita in pieno. Ha trovato posto per due giorni in un hotel e dopo un po’ di incertezza perché i rifugi erano già stracolmi. Ha discusso all’infinito con il manager dell’hotel, ma nulla da fare e così prima di richiudere la valigia senza sapere dove andare, vedendo l’agitazione del personale di servizio si è offerto di aiutare a preparare la struttura per resistere all’assalto del vento e della pioggia. Il manager commosso gli ha concesso di restare fino a quando la bufera sarà passata. Anche Frank stava cercando disperatamente dei sigilli per le sue finestre, ma tutto era esaurito. Ha visto un vicino in difficoltà nel fissare le sue e si è offerto di dargli una mano, ricevendo in cambio le protezioni per gli infissi gratuitamente.
L’11 settembre in Florida ha le sfumature della solidarietà e le azioni di accoglienza e soccorso si moltiplicano ora dopo ora, come quell’11 settembre del 2001, quando due aerei a New York bucarono le Torri Gemelle al World Trade Center, un terzo entrò in un’ala del Pentagono e il quarto si schiantò in un campo della Pennsylvania. Quel mattino 2.974 persone furono consegnate alla morte da un’azione terroristica voluta da Al Qaeda, ma altrettante migliaia si precipitarono negli ospedali per donare sangue e, dopo il panico delle prime ore, corsero al World Trade Center ad offrire il loro aiuto. Aprirono le proprie abitazioni per dar sollievo a chi cercava di raggiungere casa a piedi, offrirono cene e pranzi gratuiti ai soccorritori, trasformarono i banchi delle chiese in letti di fortuna e restarono fino a notte nelle scuole con i ragazzi che non vedevano arrivare i genitori, perché spariti tra le macerie.
Anche quest’anno a Ground zero i nomi delle vittime vengono scanditi con solennità dai parenti e sono interrotti solo dalla campana che segna le ore degli attentati. La lista del 2017 riporta una novità: include anche i 582 tra poliziotti, pompieri, operai edili, volontari morti dopo l’11 settembre per le conseguenze delle polveri respirate nei mesi di lavoro e di volontariato trascorsi tra le lamiere e il fumo. Forse nessuno di loro poteva immaginare che il dovere e la generosità avrebbero avuto un prezzo tanto alto. «Ma non potevamo tirarci indietro», mi dice con fermezza Tariq, musulmano, che per mesi ogni giovedì era a Ground Zero a fianco della Croce Rossa. Nelle primi giorni consolava le famiglie che speravano ancora di trovare vivi i loro cari e raccoglieva le lacrime e la disperazione, quando ad emergere dalle macerie era un braccio, un dito, un brandello di corpo.
«Non pensavamo di consolare cristiani, ebrei o musulmani: noi stavamo aiutando esseri umani, persone. Lì si è incontrata l’umanità senza etichette». Eppure su di lui pendeva quella di essere musulmano, come si erano dichiarati i terroristi. «Non erano musulmani e non conosce l’Islam chi continua a compiere questi atti di terrore – ribadisce Tariq. Il 23 settembre del 2001 allo Yankee stadium fu organizzata una celebrazione di preghiera e ad aprirla fu una preghiera islamica. E tra gli oratori ci fu anche l’imam Pasha della moschea Malcom Shabazz. Lui, che nei giorni dopo l’11 settembre aveva partecipato ad incontri con il sindaco e gli agenti del dipartimento di sicurezza, ha continuato a ribadire che eravamo americani e che dovevamo servire il nostro Paese offrendoci come volontari. E in tanti lo abbiamo fatto, incuranti delle conseguenze anche per la nostra vita e le nostre famiglie». Tariq soffre per l’accostamento infelice tra la sua fede e il terrorismo anche perché in quegli attentati morirono 300 musulmani e spesso in tanti lo dimenticano.
Le vittime dell’11 settembre esprimono un crogiolo di nazionalità e di fedi ed è proprio per questo che a Washington, ogni anno, una marcia per la pace chiamata “Il cammino dell’unità” offre l’opportunità di incontrarsi e di imparare dalle fedi dell’uno e dell’altro. Sul percorso sono aperte chiese, sinagoghe, moschee, templi che offrono notizie e testimonianze sulle diverse esperienze religiose.
L’11 settembre, dal 2002, è anche la giornata nazionale del ricordo e del servizio. In ognuno dei 50 stati degli Usa migliaia di volontari scelgono di offrire il loro tempo alla comunità distribuendo pasti ai senzatetto, ristrutturando case e scuole, visitando veterani e famiglie di militari caduti in guerra. Centinaia i progetti che vogliono mostrare il volto solidale del Paese.
«La lezione dell’11 settembre è questa – mi spiega mons. Whalen, ora preside della Farrell school a Staten Island, che per tre mesi, dopo il crollo delle torri, quasi ogni notte era stato all’obitorio allestito in una tenda sull’East River –. C’era un sentimento unico tra tutti ed era quello del prendersi cura. Prendersi cura degli agenti che lavoravano senza sosta e prendersi cura delle famiglie che avevano perso qualcuno o dei bambini di quella mamma che cercava il marito e proprio perché uno della parrocchia li ha tenuti con se, lei è corsa a Manhattan per capire cosa fosse successo. Ci sono state scene commoventi e non c’era rabbia o vendetta, ma un senso di unità, di responsabilità verso tutti».
Ai sacerdoti era stato chiesto di essere al servizio dei pompieri, dei poliziotti e dei soccorritori che arrivano stremati per i lavori di scavo e sconvolti dal ritrovamento di frammenti di corpi difficili da identificare. «Ricordo una notte fredda e piovosa a fianco di un dipendente dell’agenzia governativa per i disastri – continua mons. Farrell. Era agnostico e ad un certo punto mi dice: ’Quando tutto questo sarà finito voglio parlarti a fondo per capire il senso della tua presenza qui, perché fai quello che stai facendo’. Era colpito dal fatto che tanti dei pompieri o degli agenti o dei soccorritori accorsi per primi nelle torri, e uccisi dal loro crollo, fossero cattolici. E cattolici erano tanti di quelli che scavavano tra le macerie. ‘Sono consapevoli che quelle polveri li uccideranno – continuava il funzionario – eppure sono lì e non si muovono e non c’è rabbia o vendetta nel loro sguardo. Sono arrivati a tutte le ore portando magari un dito o un braccio e tu sei stato qui ad accogliere tutti con grande rispetto. Deve esserci qualcosa nella tua religione per riuscire a trattare così questi corpi’». Monsignor Whalen si commuove ancora ricordando quella sera perché la testimonianza del Vangelo non aveva avuto bisogno di parole, ma avevano parlato i fatti. Tra quei morti, 23 pompieri erano stati alunni della sua scuola.
Questa notte su Ground Zero si leveranno due fasci di luce ad illuminare il cielo, quasi a ricordare che il buio di quel giorno non ha avuto l’ultima parola, perché quella l’hanno scritta e la scrivono coloro che hanno saputo offrire e offrono una possibilità di speranza, di aiuto, di condivisione anche ai tempi di Harvey e di Irma.