Kurdistan iracheno. Comincia il dopo referendum
Grande festa a Erbil, a Sulaymaniyyah e in tutto il Kurdistan iracheno per i risultati del referendum voluto dal “governatore” Masoud Barzani (Partito Democratico del Kurdistan), che chiedeva ai cittadini della regione autonoma irachena del Kurdistan (Krg) di esprimere il proprio parere sull’indipendenza dall’Iraq.
Secondo la Tv curda Rudaw, hanno preso parte al voto circa il 78% dei 5,2 milioni di cittadini con diritto di voto, e poco meno del 92% di chi ha votato si è espresso a favore della nascita di un nuovo Stato indipendente dall’Iraq.
L’esito del referendum è stato festeggiato anche da molti curdi che non risiedono nella regione (Krg), che vivono a Kirkuk (in Iraq, ma sotto il controllo dei peshmerga curdi dal 2014) e anche nel Rojava, il Kurdistan siriano. Probabilmente avrebbero voluto festeggiare anche numerosi curdi turchi, ma con l’aria ostile che tira nei loro confronti ad Ankara non se lo potevano permettere. Per i curdi iraniani non è dato sapere come e se hanno reagito.
Intanto, l’83enne ex presidente iracheno (2005-2014) Jalal Talabani, capo dell’Unione patriottica del Kurdistan, che aveva appoggiato il referendum anche se in modo molto tiepido, è stato colpito da un ictus, e non per la prima volta. Mustafa Nawshirwan, capo del terzo partito coinvolto nella decisione di tenere il referendum, il Goran (Movimento per il cambiamento), è deceduto improvvisamente quattro mesi fa.
Le reazioni avverse e in alcuni casi minacciose dei Paesi confinanti, in cui vivono dispersi 30-35 milioni di curdi, erano state ampiamente annunciate. Prima di tutte quelle dell’Iraq, il Paese direttamente coinvolto dalle aspirazioni indipendentiste.
Il premier iracheno Heidar al-Abadi ha bollato come incostituzionale il referendum ed ha risposto, per intanto con il blocco dei voli internazionali che collegano Erbil al resto del mondo. Barzani ha reagito in modo molto pacato chiedendo di «intavolare un dialogo costruttivo piuttosto che continuare a minacciare il popolo curdo».
L’impressione è che Barzani intenda utilizzare il plebiscito referendario come moneta da mettere sul piatto della bilancia, accanto all’impegno militare contro il Daesh, per negoziare se non l’indipendenza almeno una maggiore e più concreta autonomia federale all’interno dello Stato iracheno.
Toni molto duri da parte di Erdogan, il presidente turco, che accusa l’ex amico Barzani di tradimento. Preannuncia il blocco di aiuti e rifornimenti. Ed ha minacciato che la Turchia è «pronta a considerare tutte le opzioni, anche quella militare». L’impressione è che la voce grossa di Erdogan contro Barzani in realtà sia rivolta ai curdi turchi (oltre 10 milioni), che il presidente da tempo perseguita e di cui teme le reazioni nel caso di un’indipendenza reale dei curdi iracheni.
La reazione del presidente siriano Bashar al-Assad sembra invece più pacata. Se da un lato ritiene inaccettabile in Siria un referendum come quello iracheno, dall’altro si dice disponibile ad un dialogo con i curdi siriani in relazione ad una loro autonomia amministrativa nell’ambito della futura ricomposizione del Paese. Di fatto Assad è al momento molto preso dalla campagna militare di Deir Ezzor per sconfiggere uno degli ultimi bastioni dello Stato Islamico, e contemporaneamente aprire un “corridoio sciita” che potrebbe collegare il Mediterraneo all’Iran passando per la Siria e l’Iraq meridionale.
Anche a Teheran il referendum curdo-iracheno è visto con timore e sospetto. Anche se i curdi iraniani sono più integrati nello stato persiano (da oltre 4 secoli), non sono mai mancate aspirazioni all’indipendenza, soprattutto a partire dalla Seconda guerra mondiale quando, per 11 mesi, vi fu una repubblica curda (Repubblica di Mahabad) che nacque con il sostegno sovietico. Per intanto il governo iraniano ha aderito alla richiesta di Baghdad di chiudere lo spazio aereo ai voli da e per il Kurdistan iracheno, ed ha rafforzato la presenza militare al confine.
Washington, pur essendo il maggiore sostenitore dei curdi siriani nella lotta allo Stato islamico, esprime preoccupazione per l’instabilità che il voto referendario ha provocato nella regione.
Mosca è ancora più liquida nelle sue affermazioni, per un verso unendosi al coro dei «preoccupati» e per un altro cercando di stabilire contatti commerciali ed economici con i curdi iracheni di Erbil. In ogni caso, la presenza di USA e Russia nella regione sembra fare da efficace deterrente all’eventualità di avventure militari turche o di altri Paesi.
Iracheni, turchi, siriani, iraniani e le grandi potenze affermano chi più chi meno che «non è il momento» per l’indipendenza. I curdi, da parte loro, pongono un’inespressa ma legittima domanda: «Se non ora, quando?». È dal 1920 che i curdi aspettano il momento giusto.