Kovanscina alla Scala
Chi non ha potuto finora assistere all’opera di Musorgskij nel teatro milanese dovrebbe affrettarsi a farlo. I motivi sono diversi. Primo, perché il capolavoro del musicista russo, anno 1886 – ma l’autore era già morto nel 1881 senza aver completato la strumentazione –, è assai raramente rappresentato, almeno in Italia. Secondo. Perché l’allestimento (scene di Margherita Palli, costumi di Ursula Patzak, luci di Pasquale Mari) e la regia di Mario Martone sono di alto livello, moderne e convincenti. Infine, perché la direzione di Valery Gergiev è di quelle memorabili per bellezza di suono, compattezza, cantabilità dall’orchestra scaligera trasfigurata sotto il gesto parlante e poetico del direttore russo.
Poi, il cast: voci piene, modellate, “voci” finalmente grandi, in un’epoca di tenorini e sopranini esili. Penso, fra tutti, al mezzosoprano Ekaterina Semenchuck come Marfa, e al basso Stanislav Trofimov, nel ruolo del monaco Dosifej, che fu del grande basso Saljapin. Senza dimenticare il coro scaligero, forte e melodioso in modo sorprendente.
Con complessi e voci come questi, i 5 atti del dramma scorrono in un baleno, e sì che tutto dura oltre 4 ore. Ma quando uno spettacolo è ispirato, il tempo non si sente. L’opera è un vasto epos del secolo XVIII imperniato sul contrasto sociale politico e religioso fra Vecchi e Nuovi Credenti a Mosca sullo sfondo dell’ascesa di Pietro il Grande. Ma il racconto esula dai singoli personaggi o, meglio, li trascende per farsi ritratto universale dell’umanità, come accade nei grandi scrittori russi contemporanei.
La musica non descrive ma fa vivere con energia dolente questa verità tra momenti incantati – l’alba sulla Moscova –, danze, soliloqui densi di interrogativi, pochi attimi di amore nella storia della Santa Madre Russia fra povertà e potere, allora come oggi. Il popolo è in effetti il grande protagonista. Perciò la regia di Martone ha trasportato l’azione ad oggi, in una modernità di cellulari, tablet, giornalisti a caccia di novità (l’unica nota poco intonata), donnine, mitra spianati. Tutti sono insieme ma ciascuno è solo. Il coro canta nostalgia e tristezza con un pathos commovente. Nel finale, un pianeta blu e poi rosso cita Melancholia di Lars von Trier, presenza inquietante di una purificazione con la morte. Da non perdere.