Kosovari in fuga verso l’Albania
Nessuno conosce il suo nome. È stato raccolto sul ciglio della strada da una famiglia in fuga, accanto a un villaggio fantasma, raso al suolo. Aveva lo sguardo terrorizzato, aveva consumato le lacrime e le grida, non parlava più, era tutto un tremito. Non parla nemmeno ora, 6 giorni dopo. Dalla cuffietta rossa non sbucano più quelli che dovevano essere dei bei riccioli biondi: bruciati. Sul corpo delle ecchimosi, tracce di sangue. Appena mi vede, si volta di scatto e affonda lo sguardo impaurito tra le braccia di Nita Murtezaja, la giovane donna che l’ha raccolto: «La tua giacca – mi spiega con sconforto – ha il colore dei miliziani di Arkan, e la tua macchina fotografica potrebbe essere un fucile». Poi gli altri bambini del gruppo accolto a Shënkoll lo convincono a posare per una foto di gruppo e il terrore rientra. Giochiamo assieme qualche istante.
Un’ora più tardi. Tra Milot e Rubik, sulla strada maledetta (per via dei banditi che la infestano) e benedetta (per la salvezza di tanti) che viene da Kukes, si erge un monumento nazionale, il ponte di Zog, ad arcate in cemento, che attraversa il letto del fiume Mat. Albert, il mio accompagnatore, originario proprio di queste parti, mi spiega come risalga all’epoca – rimpianta, oh come rimpianta – dell’occupazione italiana, che diede quella rete di infrastrutture che ancor oggi sostiene il Paese: ferrovie, strade, acquedotti. Due anni fa il ponte era stato chiuso perché pericolante, e nel giro di qualche settimana le ringhiere di ferro erano sparite. Ora, nell’emergenza, è stato riaperto dalla gente: attraversarlo dà i brividi, per via dei pilastri di cemento armato scarnificati e delle paurose voragini nelle campate che lasciano intravedere l’acqua sottostante. Transita un gigantesco Tir carico di farina e tutto trema. All’imboccatura del ponte, mi fermo accanto a un carro trainato da un trattore senza più gomme e a un’auto senza più targa: un gruppo familiare musulmano di Mališevo. Mi trattengo col capofamiglia – parlare forse stempera il terrore –, un uomo robusto provato dalla fatica e dall’angoscia. Comincia spontaneamente il racconto di un calvario durato 7 giorni. Parla fissandoci con gli occhi lucidi, come quelli arrossati della dozzina di familiari stipati nel carretto ricoperto alla meno peggio da un telo di nylon.
Tre mesi d’inferno: le minacce della milizia, la distruzione degli archivi dell’anagrafe e del catasto, i furti a mano armata, le vessazioni, i bombardamenti dell’artiglieria serba, l’arresto degli uomini, a tre riprese. Poi l’ultimatum: 10 minuti per partire. Al cugino chiedono 500 marchi: non li ha, e viene giustiziato con un colpo alla nuca davanti ai suoi bambini. Anche due figli di quest’uomo mancano all’appello, volatilizzati. Danno fuoco alle case sotto i loro occhi, li spogliano (letteralmente) per depredarli dei pochi marchi (sempre marchi) eventualmente celati nelle pieghe e negli orifizi del corpo, stracciano tutti i documenti con certosina diligenza, anche quelli della macchina, a cui strappano le targhe con una tenaglia. Nel frattempo i fucili premono sulle tempie e le gole di uomini, donne e bambini. In quei pochi minuti una cinquantina di uomini tra i 14 e i 30 anni vengono passati per le armi. Quattro nipoti di quest’uomo ricevono il colpo di grazia alla nuca dinanzi a chi mi racconta parole insopportabili: «Perché loro e non io?». Poi la fuga, tra case in fiamme e cadaveri e ulteriori spoliazioni. E un parto.
L’uomo si allontana senza dirmi il suo nome: «Chi siamo ormai?». Accanto a noi passa una pastorella vestita di rosa acceso; pascola tre porcellini, che forse un tempo erano rosa. Grugniscono.
Rischiano di ferire le nostre orecchie schizzinose storie come queste. O di stancarle. Ne ho raccolte decine in tre giorni d’Albania. Eppure vanno raccontate, per non rischiare di sottostimare la gravità della guerra in corso o, peggio, di dimenticare: come in altre pulizie etniche, come in altre shoah e altri pogrom, si vuole distruggere l’identità di un popolo cancellando meticolosamente la vita o lo stato civile della gente. Corsi e ricorsi storici, nel cuore della “civilissima” Europa, un superlativo che faccio fatica a scrivere.
Storie da raccontare: quanto suonano grotteschi i dubbi espressi alla tivù italiana da star della comunicazione che osano dire: «Non abbiamo prove filmate di questi presunti massacri». Ora la televisione pretende di erigersi a metro di giudizio sulla vita e sulla morte altrui: non ci facciano ridere questi novelli Catoni! Un amico albanese, col quale seguo la Rai, esclama udendo tali menzogne: «Basterebbe lasciarli per 5 minuti nel fango di un campo profughi. Ne uscirebbero con le idee diverse».
Potrei allora raccontare l’odissea della famiglia di Sahit Sali Duraj, di Prizren. Sono stati accolti in una scuola di Rubik – un paesello tutto miseria e antenne paraboliche – ai margini dei grandi soccorsi. Si stringono attorno al capofamiglia, che vuol mostrarmi a tutti i costi la ferita da arma da fuoco al costato. La pallottola è ancora nella carne. Mancano in 5 all’appello.
Oppure potrei offrire agli increduli il diario di Nexit Shalo, 22 anni, giunto a Tirana al campo delle Pishine da Priština, via Skopje, in Macedonia. Amici ammazzati, deportazione nei treni piombati, 4 giorni trascorsi nell’inferno della valle di Blace: ha aiutato una donna a partorire, ha visto una vecchietta morire al suo fianco, inghiottita in 30 centimetri di fango. Poi volevano trasferirlo in Norvegia con la forza: è scappato durante il tragitto verso l’aeroporto, ed è giunto in Albania attraverso Korcia. L’Uck? «Ero nella logistica. Ancora qualche giorno e, se non succede nulla, prendo le armi».
Basta. Sulla nave carica di kosovari di Germania che mi riporta da Durazzo a Bari, debbo mettere uno stop ai racconti dell’abominio. Spero almeno di aver trasmesso al lettore un’idea dello spessore del dramma umano (o piuttosto disumano) che sta vivendo la regione. Ma so che non sarà mai possibile. Tocca vedere di persona. Dico basta perché nello spazio di queste poche righe va data anche testimonianza della vasta ondata di generosità che ha attraversato l’Albania, da nord a sud e da est a ovest, in queste prime settimane di emergenza.
È vero, le infrastrutture dello Stato dell’aquila bifronte sono arretrate di 50 anni rispetto al resto d’Europa: le strade non sono che un susseguirsi di buche e tranelli, l’acqua c’è e non c’è, come l’elettricità d’altronde. È anche vero che la disorganizzazione dei soccorsi è evidente: l’Unhcr ha grandi mezzi ma non sa come distribuirli capillarmente; le Ong arrivano da ogni dove non esenti, talvolta, da una concorrenza che esige visibilità mediatica; gli sforzi italiani sono encomiabili, ma lo stesso Barberi dal suo stato maggiore di Tirana spesso e volentieri non sa che pesci pigliare…
E non va nemmeno taciuto che in questo trambusto le mafie (locali o nostrane) stanno tentando di mettere a segno i loro colpi, grandi e piccoli: si va dai proprietari dei pullmini – che, pagati dal governo, esigono ulteriormente laute somme dai profughi kosovari per trasportarli dalla frontiera fino a Durazzo, Tirana o Argirocastro –, ai proprietari di case che ospitano le famiglie pretendendo esosi affitti; senza dimenticare le corrotte e delinquenziali dogane albanesi che dirottano a fini privati una parte consistente delle derrate e dei materiali destinati ai kosovari. Squallore.
Però. Oltre l’inferno di Kukës, dei boschi e dei prati che ospitano gli sfollati senza ancora un riparo, ve ne sono tanti che un tetto l’hanno trovato, in tela o in mattoni.