Kofi Annan e l’impegno per la pace all’Onu
La sua biografia la conoscono tutti, i “coccodrilli” di tv e giornali hanno già ricordato la sua storia. Le sue origini aristocratiche in Ghana, i suoi studi tra patria, Stati Uniti e Svizzera, il suo lavoro all’Oms, poi per sviluppare il turismo in patria, quindi la sua carriera al Palazzo di vetro ad occuparsi di risorse umane, di operazioni di peacekeeping in Jugoslavia, Iraq, Bosnia. Nominato segretario generale dell’Onu il 13 dicembre 1996, Kofi Annan entrò in carica con l’inizio dell’anno seguente, essendo rieletto nel 2002.
Non fu il primo africano a ricoprire tale carica, visto che succedette all’egiziano Boutros Boutros-Ghali, ma fu il primo nero a rivestire il ruolo più importante delle Nazioni Unite. Un uomo che seppe rimanere semplice.
Come segretario fu apprezzato e criticato, e non sarebbe stato possibile diversamente, in particolare per le sue proposte di riforme dell’organismo internazionale, che non raggiunsero mai risultati sostanziali, in particolare quella del Consiglio di sicurezza, che ancora attende una qualche soluzione per sbloccare l’impasse delle Nazioni Unite nelle grandi decisioni per la pace.
Fu apprezzato in particolare per la sua attenzione alla legalizzazione e regolamentazione dell’intervento umanitario (fu nel periodo della sua segreteria che esplose il fenomeno delle Ong), ma soprattutto per la sua “passione per la pace”, per la gestione e la soluzione regolamentata dei conflitti, per la difesa dei diritti umani. Va detto che il suo impegno spesso rimase sulla carta, ma quasi sempre non per colpa sua, visto che le raccomandazioni che esprimeva – in particolare per la riforma dell’Onu bloccata soprattutto da George W. Bush – rimasero sui tavoli dei presidenti che contavano all’epoca, senza che fosse dato spazio alle sue idee di “necessaria delega” di prerogative dei singoli Paesi alle Nazioni Unite.
Che il suo impegno per la pace sia stato strenuo lo dice soprattutto il Premio Nobel ricevuto nel 2001 dalle Nazioni Unite. Ma la sua credibilità non riuscì a fermare la guerra del 2003 in Iraq, a comporre il dramma somalo, a impedire altri conflitti in particolare in Medio Oriente e nella sua amata Africa. Aveva intuito, o forse solo costatato, che le relazioni internazionali stavano abbandonando in modo progressivo il “tavolo” dell’Onu dopo la fine della Guerra fredda, e quindi stavano sabotando la logica della composizione dei conflitti in un organismo super partes, per lasciar spazio a modi di intervento autonomi delle più o meno grandi potenze.
Con tutto il rispetto, e come segno di grandezza umana e intellettuale, mi viene da paragonare la sua figura a quella dell’eroe Don Chisciotte de la Mancia. Nell’ultimo grande compito che gli era stato affidato, quello di evitare la tragedia siriana, nel 2012, il suo parlare e il suo agire sembravano quelli del nobile, ma impotente personaggio di Cervantes, che continuava ad annunciare sventure, a cercare di comporre fronti che non ne volevano sapere di trattare, a ricordare i miasmi che nascono dalle guerre.
Fu costretto a rinunciare all’incarico, e purtroppo quella guerra non è ancora finita. Fu lui che capì, ma non ebbe gli strumenti per evitarlo, come la grande diatriba sulla Siria non era una “semplice” guerra civile, ma un concentrato di conflitti. In qualche modo una battaglia a scatole cinesi, in cui il conflitto apparentemente principale ne nascondeva un altro: guerra civile sì, dunque, ma anche tra potenze regionali, contro il fondamentalismo del nascente Daesh, e persino tra grandi potenze, senza dimenticare la vicenda israelo-palestinese, quella del petrolio e del gas della regione, la diatriba tra sunniti e sciiti, l’allergia turca verso i curdi…
I successori di Kofi Annan, pur nella loro dignità e capacità, non hanno saputo raggiungere la sua notorietà e il suo “carisma”. Che ha collezionato, è vero, più sconfitte che successi. Ma che ha saputo mantenere fissa la stella della pace.