Kivu: non è scontro etnico

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Di colpo si è voluto ricordare all’opinione pubblica del conflitto che da 13 anni tocca la regione di Kivu nella Repubblica democratica del Congo (Rdc). Lo si è fatto con una ripresa della violenza bellica e il conseguente abbandono di case e villaggi, addirittura con la distruzione dei campi allestiti per i profughi. Quello di Kivu è un territorio che i confini politici assegnano alla Rdc, ma etnicamente composito: un’area di convergenza di popolazioni ormai stanziali provenienti dal vicino Ruanda e gruppi giunti da tutta l’area dei Grandi Laghi, spesso per sfuggire a conflitti. Una zona tristemente nota per rivolte e genocidi mai affrontati nelle loro cause ma, quando possibile, affidati solo all’emergenza umanitaria. Della ripresa della violenza colpiscono gli obiettivi: popolazione civile e, di questa, soprattutto donne e bambini, con nuclei familiari separati. A farsi strada è l’idea di una nuova composizione etnica del territorio. Forzata: e questo in violazione dei fondamentali principi del diritto internazionale da cui ognuna delle parti in conflitto cerca di sottrarsi, paradossalmente sostenendone una corretta applicazione. Per le autorità di Kinshasa il timore non è l’estendersi del conflitto nel Kivu, quanto piuttosto che i ribelli possano realmente giungere nella capitale, come minacciano. Proprio come capitò all’attuale gruppo dirigente, che conquistò il Paese invocando, fra l’altro, un’effettiva sovranità sulle risorse rispetto a interessi esterni all’Africa. Oggi i ribelli contestano gli accordi con la Cina per lo sfruttamento delle risorse naturali del Kivu e per la costruzione di infrastrutture funzionali a quel disegno. Alla comunità internazionale è chiesto un intervento, difficile al momento da realizzare. I caschi blu già in loco sono distanti dalla tragedia che si sta consumando, limitati dal mandato e dalla forza militare composta solo da piccoli Paesi. Le visite di alto livello dell’Unione europea sembrano aver solo confermato lo status quo, non una tregua per negoziare, favorire il rispetto dei diritti fondamentali, l’interesse delle diverse parti, l’integrità territoriale e la sovranità di ogni Paese. Tale status quo può forse evitare altro sangue, ma non certo risolvere le cause del conflitto. Né lo può l’esito elettorale negli Usa, fino ad oggi non coinvolti in quell’area, lasciata ad altre influenze o ingerenze. E allora è comoda l’immagine dello scontro tribale: evita di intervenire, permette soluzioni interetniche e consente di trasferire i problemi da uno Stato all’altro. Non sono queste le cause del conflitto?

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