King Fahd Causeway
È elettrizzante, anche se un’incognita lo è solo relativamente, l’idea di “toccare con la mano” l’Arabia Saudita, uno dei mondi più misteriosi e potenzialmente esplosivi che esistano al mondo.
Vorrei arrivare, dal Bahrein, fino alla frontiera saudita percorrendo la metà di una delle opere ingegneristiche più impres-sionanti al mondo: il King Fahd Causeway. Qualche dato può dare un’idea dell’importanza dell’infrastruttura: 26 chilometri nel mare con una serie di viadotti a schiena d’asino, 12430 metri che congiungono diverse isolette, ultimata nel 1986 e costata all’epoca 1,2 miliardi di dollari.
È una lingua d’asfalto quella che si percorre ad andatura sostenuta, occupata da un traffico diradato, costituito principalmente da grandi camion a rimorchio che trasportano merci in Arabia Saudita o che tornano in patria dopo aver scaricato in Bahrein o Qatar la loro mercanzia.
Si sale e si scende, perché i lunghi viadotti paiono voler imitare le gobbe dell’animale più amato del luogo, il cammello ovviamente, e il suo cugino dromedario. In una dozzina di chilometri si giunge ad un’isola caratterizzata da due funghi identici: due torri, una del Bahrein, l’altra saudita. In mezzo a loro la frontiera, intasata di truck.
Il lungomare permette di osservare i ponti ondeggianti che si perdono nelle brume dell’umidità del Golfo Persico. Come un lunghissimo serpente di mare che s’è perduto nei fondali del mare. Dall’alto della torre, invece, è la maestosità dell’opera che appare evidente e che certamente è un vero orgoglio per questi popoli. Nonostante la sporcizia dei vetri.
(dal blog di Michele Zanzucchi)