Kiev senza pace
Anche se i giornali e i telegiornali danno ormai poco spazio alle vicende ucraine, le contestazioni e le manifestazioni proseguono alla grande a Kiev e, con molta meno intensità, in altre parti del Paese ex-sovietico. È entrata in vigore la controversa legge anti-sommosse, che limita la possibilità di proteste di piazza e conferisce maggiori poteri d’intervento alle forze dell’ordine. I numeri delle ultime giornate di scontri: 5 morti, 81 poliziotti ricoverati per ferite di vario genere, assieme a circa 250 manifestanti e 26 giornalisti, mentre gli arresti sono stati 31.
La nuova legge, pubblicata sulla Gazzetta ufficiale ucraina, impedisce l’erezione di barricate, vieta gli assembramenti “cospicui” in luoghi pubblici, mette fuorilegge i cortei di più di cinque auto, l’uso di caschi, passamontagna e megafoni durante le manifestazioni. Sono previste pene fino a 5 anni per chi occupa edifici pubblici. Non sono al riparo dalla stretta nemmeno i parlamentari, che vedrebbero sospesa la loro immunità nel caso in cui i loro comportamenti rientrino in questi casi. Insomma, un giro di vite molto pericoloso. Ha avuto inizio anche il balletto delle responsabilità: i gruppuscoli di giovani vestiti di nero dalla testa ai piedi che seminano disordini nella notte sono, secondo i manifestanti filo-Europa, dei poliziotti in borghese, che operano per dare pretesto alle forze dell’ordine di intervenire contro i manifestanti, che sarebbero invece «assolutamente pacifici».
Inutile dire come il clima nella capitale ucraina non sia dei migliori. Due fonti da noi intervistate, vicine alle chiese greco-cattolica e ortodossa, non vogliono apparire coi loro nomi per timore di rappresaglie: «Per certi versi – ci dice una di esse – sembra che si stia tornando ai metodi polizieschi del Kgb». Entrambe le fonti sono comunque concordi nell’attribuire al governo delle responsabilità notevoli nel peggioramento della situazione dell’ordine pubblico, «anche per l’incompetenza delle autorità di polizia che non sanno gestire pacificamente la protesta». Le nostre fonti si dividono, invece, nella valutazione politica della svolta pro-Russia del presidente Ianukovich, che ha voltato le spalle all’Unione europea per ritornare sotto l’ombrello del Grande Vicino. Le opinioni raccolte paiono lo specchio della divisione esistente nel Paese, che ha dimensioni geografiche (Leopoli e l’Ovest cattolico sarebbero più vicine alla tendenza filo-europeista, mentre Kiev e l’Est ortodosso sarebbero più legate, il che si capisce bene, alla tendenza filo-russa), oltre che culturali ed economiche: se le imprese vicino alla capitale guardano a Mosca, quelle di Leopoli guardano a Berlino.
Un editore ortodosso, attento ai rapporti con l’Occidente, auspica un possibile accordo tra le parti, per un «avvicinamento parallelo sia alle istanze europee, e in particolare ai suoi standard di democrazia, che alla inveterata tradizione di legame con il pensiero slavo, russo in particolare». Ma come giungervi? «Servirebbero nuove elezioni e un processo di riconciliazione nazionale, a partire dalla duplice sensibilità del popolo. Bisogna che ci si metta pacificamente attorno a un tavolo e discutere, più che farlo in piazza». Il primo atto, secondo l’editore, sarebbe «la liberazione dell’ex-premier Yulia Tymoshenko, o anche semplicemente un suo trasferimento in un altro Paese europeo a fini sanitari e umanitari».