Kazakhstan, nuova tappa nella geopolitica di Francesco
Nel 1893, in concomitanza con l’Expo Universale, si svolse a Chicago il Parlamento Mondiale delle Religioni. L’iniziativa non era stata interreligiosa ma presa da un gruppo di rappresentanti di chiese cristiane con qualche rappresentante di altre fedi. Sebbene non fosse uno degli organizzatori diretti, anche l’arcivescovo cattolico di Chicago appoggiò l’iniziativa che potrebbe essere definita come il primo vero consesso interreligioso a livello internazionale. In seguito, la Santa Sede riprese l’ordinario della sede cattolica americana per aver partecipato ad una iniziativa ritenuta pericolosa perché aveva proposto un incontro fra rappresentanti di quelle che nella Chiesa cattolica non erano ritenute definibili con il termine di religione.
La scena di quel Parlamento, che dovette attendere un secolo per vedere la seconda edizione – si tenne ancora a Chicago nel 1992 – mi è venuta alla mente nel vedere un papa Francesco fragile, ma sereno e sorridente, entrare nella grande sala dell’Indipendenza a Nur Sultan, la capitale del grande stato asiatico del Kazakhstan dove in questi giorni si sta svolgendo il VII Congress of Leaders of World and traditional Religions. L’iniziativa, presa nel 2003, dall’ex-Presidente Nursultan Narzabayev ha dato vita a sei edizioni di questa assise di rappresentanti di diverse tradizioni religiose provenienti da tutto il mondo, sebbene con una forte maggioranza della zona caucasica e centro asiatica. Questa edizione ha visto un centinaio di delegazioni provenienti da tutto il mondo in rappresentanza di tutte le maggiori tradizioni religiose. Fu la Giornata di Preghiera che Giovanni Paolo II aveva convocato ad Assisi – si era nel 2002 a pochi mesi dalla tragedia del 9/11 – a ispirare al presidente kazakho una manifestazione di questo tipo. Per la prima volta, ora, un papa vi ha partecipato – anche Giovanni Paolo II aveva visitato il Paese poche settimane dopo le Torri Gemelle, ma senza intervenire nel congresso dei leaders religiosi che sarebbe iniziato due anni più tardi.
Ci sono molte chiavi di lettura di questo viaggio del papa argentino. Ne tento una lontana, forse, ma non troppo, da quanto riferito in questi giorni dai media di tutto il mondo. Cerco di scavare fra le pieghe per mettere in evidenza particolari importanti ma forse non così evidenti. La visita di Francesco ha riproposto un modello che ormai conosciamo e che tende a mettere in luce le periferie della Chiesa cattolica – in Kazakhstan i cristiani cattolici non arrivano all’1% della popolazione totale che ha una larga maggioranza musulmana – e, al contempo, cercare alleanze per impegni comuni di fronte alle grandi sfide che l’umanità deve oggi affrontare, prime fra tutte la pace e il dopo pandemia. Lo avevamo visto ad Abu Dhabi, in Marocco, in Macedonia del Nord e in Bulgaria, solo per fare alcuni esempi più recenti fra i 38 viaggi internazionali del papa argentino. Fondamentali nei primi due giorni di questa tappa centroasiatica del peregrinare bergogliano sono stati l’incontro con l’attuale presidente Kassym-Jomart Tokayev e membri del governo e parlamento, l’inaugurazione del Congresso dei leaders religiosi e la messa celebrata per la minuscola comunità cattolica alla quale si sono uniti pellegrini provenienti da altri Paesi vicini e non pochi musulmani kazakhi.
Quello che ha impressionato nell’approccio di Bergoglio è stata, ancora una volta, ma forse anche più marcatamente che in passato, la sua capacità di mettere in rilievo le caratteristiche ricchezze del popolo kazakho e della sua tradizione. Gli interventi del papa si sono, infatti, ispirati ad aspetti e protagonisti della cultura locale, come la dombra, tipico strumento musicale a due corde, e Abai, poeta e padre della lingua kazakha. Citando caratteristiche dello strumento e passi delle opere dell’uomo di cultura locale, papa Francesco si è fatto accompagnare nei suoi interventi dalla sensibilità popolare di questa immensa terra di steppe sconfinate e gruppi etnici e culturali diversi. Ne ha messo in luce la capacità di vivere in armonia, all’interno di una società multietnica e quindi multiculturale e multireligiosa. Ha sottolineato la capacità kazakha di essere ponte fra oriente ed occidente fin da tempi antichi, dove tale realtà era simboleggiata dalla “via della seta”. Ha dimostrato di apprezzare l’apertura del kazakhi all’accoglienza citando il noto proverbio: «Se incontri qualcuno, cerca di renderlo felice, forse è l’ultima volta che lo vedi». In definitiva, ha mostrato, come ha sottolineato alla fine del suo primo discorso il Presidente Tokayev, di aver apprezzato la ricchezza culturale e spirituale del popolo kazakho.
Un ulteriore particolare mi ha colpito. Sempre nel corso del suo primo discorso al Palazzo Presidenziale, papa Francesco non ha trascurato di ricordare quella che ha definito la “bella usanza” «di cuocere, il venerdì mattina, sette pani in onore degli antenati». La frase, probabilmente passata inosservata ai più, ha un alto valore simbolico nella storia del cristianesimo e dell’evangelizzazione, proprio in Asia. Francesco è, infatti, un gesuita e i suoi confratelli nei secoli passati (fra il XVI e XVII secolo) si sono trovati al centro di una lunga diatriba con altri ordini religiosi che operavano in Cina e in Paesi di cultura confuciana e daoista, proprio a proposito di una questione simile. Si trattò di un contenzioso doloroso che spaccò la chiesa missionaria in Asia compromettendo gravemente il successo dell’annuncio della Buona Novella in quel continente. Per questo la frase pronunciata dal primo gesuita diventato papa, che si sofferma ad apprezzare tale pratica locale, ha un senso importante e traccia vie nuove dove missione e dialogo sono veramente due aspetti della stessa realtà.
Ci sono poi le grandi sfide in cui le religioni posso giocare un ruolo decisivo e che Francesco circondato da leaders di ogni parte del mondo e delle più diverse tradizioni religiose ha nuovamente ripetuto: la pace, la cura per la vulnerabilità lasciata dalla pandemia, la questione ormai universale dell’accoglienza e quella cura della “casa comune” che continua a rappresentare una delle priorità più caratteristiche del suo pontificato.
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